VOLKER SCHLÖNDORFF E IL NUOVO CINEMA TEDESCO

Volker Schlöndorff, esponente del Nuovo cinema tedesco, nel cinema dal 1960. Tra i suoi film più degni di nota c’è Fuoco di paglia (1972), presentato alla Mostra di Venezia nel ’72. – Come potrebbe riassumersi un film che comincia con un divorzio che sembra una liberazione e si conclude con un matrimonio che non è un lieto fine, ma una capitolazione. Tra queste due tappe della vita di una donna, una presa dii coscienza; e un tentativo di emancipazione.

Qualcuno, però, in Germania, lo ha definito anche un film politico. 

    «La divisione che oggi fanno molti fra film politici e film non politici è falsa e pericolosa. Bisogna evitare che il film “politico” diventi un’etichetta come il film giallo o il western che invece, secondo alcuni, non sarebbero film politici. Al contrario, tutti i film sono e debbono essere politici, nel senso che debbono essere realizzati tutti con una coscienza politica. E in genere sono proprio i problemi cosiddetti privati ad essere o a diventare dei problemi politici, perché tutti noi viviamo concretamente i problemi politici nel momento in cui si ripercuotono sulla nostra vita privata. È in questo senso che Fuoco di paglia è un film politico. Non perché tratta della condizione della donna nella società moderna, ma perché la donna che ne è protagonista soffre nella sua vita privata di una situazione “politica” e perché il suo problema psicologico ed emotivo è espresso e sentito come un fenomeno politico».

Potrebbe rientrare nel novero dei film femministi, con tale definizione.

    «No, un film personale, un film che si occupa di un problema che mi interessa da vicino: il problema di come vivere con una donna quando sento che, nella società, non ha gli stessi diritti che ho io. È stato partendo da questo tema privatissimo che ho affrontato poi il problema generale. Ho capito di non riuscire a vivere con la donna che amo fino a che tanto io quanto lei non saremo del tutto emancipati ed uguali. Scrivendo per il cinema la nostra storia personale, ho cercato di capire che cosa ci impediva di arrivare a questa meta. È così che ho realizzato il film. Un film che. soprattutto per Margarethe von Trotta – che ha sceneggiato il film con me e che è la mia interprete e che è anche mia moglie – può dirsi decisamente autobiografico. Per questo arriva direttamente al pubblico. Perché l’esperienza vissuta la si intuisce dietro ogni sua scena ».

Il suo, comunque, resta pur sempre un cinema «impegnato», sociale, non privato.

    «In un certo senso sì, ma la mia idea di cinema “impegnato” è stata modificata, con il tempo, dall’esperienza. I turbamenti del giovane Torless (1966), ad esempio, era un film che avevo politicizzato in modo troppo superficiale; e lo stesso sbaglio 1’ho fatto dopo con La spietata legge del ribelle (1969). È un errore cercare di rendere attuale il passato. Una vicenda la si rende comprensibile solo ambientandola in un’epoca e in una struttura sociale ben precisa. È per questo che sono giuste le analisi de L’improvvisa ricchezza della povera gente di Kombach (1971) e di Fuoco di paglia. Il cinema, oltre a tutto è un’arte emotiva e quei due film “commuovono” di più. Il cinema astratto non ha senso. Le idee debbono incarnarsi nei personaggi. Il cinema “impegnato” ha valore solo se si umanizza. Il miglior modello, in questo campo resta per me Jean Renoir»

La sua opinione sugli attori?

    «Un film è anche il documento di un attore, sia professionista che non professionista. Gli attori non devono “recitare”, devono solo “esporsi” alla macchina da presa mentre interpretano le loro parti. Quando scelgo un attore non mi interessano tanto le sue qualità quanto le sue possibilità di essere “vero”. Se trovo un attore che, per una determinata parte riesce a sembrarmi vero allora lo scelgo, ma non sceglierei mai un attore,  fosse pure geniale, se dovessi creare dopo la condizione di costruire un personaggio che non gli somiglia. Meglio un dilettante, allora. In Fuoco di paglia, ad esempio. Anche qui mi sono fatto guidare dalla mia esigenza solita di autenticità a tutti i costi. Nel film ci sono delle ballerine, c’è una maestra di ballo, una maestra di canto: dei personaggi che nessun attore potrebbe sostituire. E c’è anche un critico d’arte che improvvisa a gran voce le sue teorie estetiche; il suo modo di parlare, di sorridere, di muoversi perderebbe ogni apparenza di verità se ci fosse un attore a ricrearlo; e non lui a viverlo ».

Quali sono i principi che hanno guidato la sua attività nell’ambito del Nuovo cinema tedesco?

    «Uno solo, ma fondamentale: considerare l’attività cinematografica come un’attività sociale (o politica); o, come dice Godard: “Fare politicamente del cinema, anziché fare del cinema politico”».

E come ha applicato questi principi ai suoi film?

    «Introducendo in ogni racconto aneddotico gli elementi e il ritmo della riflessione. Non “argomentando”, ma cercando di far nascere una comprensione più vasta dalle idee suggerite dalla vicenda. Nella speranza di raggiungere l’equilibrio perfetto fra le idee e le emozioni».

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