VISCONTI E PATRONI GRIFFI. QUELLE PICCOLE METAMORFOSI NEI MÉNAGE MATRIMONIALI

Il matrimonio è stato oggetto di svariate e colorite narrazioni nel nostro cinema: del resto, lo stesso Ovidio disse che: “L’amore è un genere diverso di conflitto.” Talmente vero che si è arrivati a rappresentare situazioni in cui – pur di salvare un ménage ormai critico – la conflittualità dei coniugi capisce di dover alterare regole e convenzioni, dando vita ad interessanti forme di complicità.

    Penso, anzitutto, a Il lavoro di Luchino Visconti, uno degli episodi di Boccaccio ’70, film del 1962, nato dalla sinergia tra più registi, ciascuno dei quali affronta il tema del sesso, tramite la rappresentazione di una novella contemporanea, di boccaccesca memoria.

    Ne Il lavoro la vicenda si svolge tutta in un interno, suggestivo palazzo meneghino: lui (Tomas Milian) è un giovane conte, sposato ad una bellissima ragazza tedesca (Romy Schneider), figlia di un ricco industriale nord europeo. La dorata quiete familiare viene scossa dalla notizia – già apparsa sui vari quotidiani – per cui il marito, assieme ad una brillante comitiva di amici d’infanzia, e’ stato “beccato” in compagnia di alcune squillo. L’entourage del conte – primo fra tutti il suo amministratore, bravissimo Romolo Valli – è preoccupato delle possibili reazioni della giovane contessa, temendo che il di lei padre possa “tagliare i viveri” al fedifrago protagonista. L’ansia aumenta, perché la bella consorte è per alcune ore irreperibile, forse già in procinto di separarsi. Nulla di tutto questo: ella leggiadramente riappare, incuriosita, quasi divertita, dall’iniziativa del marito, al quale chiederà ogni particolare.

    Inizia, così, un confronto che riaccende tra i due una sopita complicità: in fondo il marito era andato a ritrovare la sua “nave scuola”, ancora su piazza, quasi a voler viaggiare nella memoria. Questa confessione, se da un lato rafforza la coppia, dall’altro destabilizza la moglie, la quale si accorge – d’un tratto – di non avere passioni né interessi. Forse cominciare a lavorare potrebbe segnare la svolta: ma che fare? La bella contessa, in realtà, non sa far nulla, non ha mai pensato di dover lavorare e non saprebbe neppure trovare un lavoro; senza considerare che il suo potente genitore non approverebbe una scelta così borghese.

    Ispirata dal racconto del marito, la protagonista deciderà di diventare la “sua” squillo, per cui tutte le volte che questi vorrà congiungersi a lei dovrà pagarla, trattando prima sul prezzo. Scelta, questa, che troverà pieno consenso da parte del marito, “stuzzicato” da questo nuovo ritrovato equilibrio di coppia.

    Qualche anno più tardi, nel 1969, Giuseppe Patroni Griffi ripropone lo stesso tema, sia pure con dinamiche e contesti diversi, tramite Metti una sera a cena.

   Siamo sostanzialmente di fronte al prototipo di un’annoiata ed un po’ licenziosa famiglia allargata: Michele (Jean Louis Trintignant) e’ uno scrittore che vive, come fallimento professionale, la sua recente, ma necessaria, collaborazione con il cinema.

   Questi è sposato a Nina (Florinda Bolkan), bellissima quanto annoiata, che trascina nei loro convivi quotidiani la sua migliore amica Giovanna (Annie Girardot), nubile e segretamente innamorata di Michele – che alla fine riuscirà comunque a sedurre – nonché Max (Tony Musante), il non segreto amante di Nina: un attore che spera di essere eletto da Michele a protagonista di una sua commedia.

    Nina è decisa a troncare con Max, ma questi teme di perdere il suo contatto con Michele, sicché propone a Nina, come cinico diversivo, Ric un giovane gigolò bisessuale (Lino Capolicchio), che alla fine s’innamorerà di lei, tentando il suicidio. Per la prima volta Nina si sente finalmente amata per cui, sovvertendo ogni ordine, inizia una relazione con Ric. Ma la noia con cui ella da sempre convive e’ destinata a riemergere: lo scandaloso rapporto con il gigolò diverrà, comunque, routine, che potrà essere esorcizzata soltanto tornando alla dimensione della famiglia allargata.

   Il “glorioso consesso” sarà, però, arricchito dalla, ormai necessaria, presenza di Ric: non è chiaro, infatti, se sia il gigolò ad essere stato adottato dai quattro o viceversa, se siano i protagonisti – come personaggi in cerca di autore – ad essere stati soccorsi da Ric. Certo è che, spesse volte, più solitudini non si elidono, ma si alimentano vicendevolmente e che la presenza, sia pure mercenaria, di un estraneo diventa indispensabile quando in un rapporto non v’è più nulla da dirsi.

   La dimensione spazio-temporale rende entrambi i film degni di una magnifica rappresentazione teatrale – Metti una sera a cena è in effetti tratto dall’omonima pièce di Patroni Griffi – anche perché i dialoghi ben rappresentano il mutamento nel costume sessuale del tempo, con atmosfere che sembrano anticipare certe dinamiche che, qualche anno più tardi, sfoceranno drammaticamente nel delitto dei Marchesi Casati Stampa.

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