IL CINEMA “TRASCENDENTALE” DI VITTORIO DE SETA

Nelle opere del grande regista-documentarista palermitano si configura uno stile particolare che il regista americano Paul Schrader ha individuato nei film di Bresson, Dreyer e Ozu.

    La francescana povertà della messa in scena dei film di Vittorio De Seta (Palermo, 1923 – Sellia Marina, Catanzaro, 2011) che in modo non determinante ne ha influenzato lo stile rigoroso del tutto avulso da concessioni spettacolari, non è il semplice risultato di una coazione imposta dalle angustie produttive. Tecnica e produzione – ossia gli elementi generalmente sottovaluti dalla critica storicistica, che per lungo tempo (e in parte ancora oggi) ha dominato l’impostazione concettuale della critica cinematografica in Italia – hanno scarsamente influenzato l’analisi del film, visto soprattutto come mera creazione artistica. Idealismo crociano e marxismo (il dualismo Chiarini-Barbaro, tanto per citare l’esempio più clamoroso) s’incontrano nello storicismo, sottostimando sia gli aspetti tecnici (Truffaut ne “Il piacere degli occhi” lamenta l’ignoranza linguistica del critico) e parimenti quelli di ordine produttivo, cioè economico. Tuttora raramente nella critica quotidianista vi si trovano richiami, mentre passata la temperie degli anni Sessanta e Settanta oggi lo studio del cinema viene finalmente affrontato, almeno in ambito accademico, nella sua complessità come fenomeno artistico, industriale, commerciale, ecc…

    Ora, pur tenendo conto delle necessità produttive (De Seta spesso si è autoprodotto e comunque non ha mai goduto di budget generosi) e parimenti dell’immanenza delle storie narrate, nei film del regista palermitano, da Banditi a Orgosolo a Lettere dal Sahara, sono palesemente manifeste le articolazioni di quello stile che Paul Schrader ha definito “trascendentale”1, uno stile che pur non conducendo ad una dimensione necessariamente altra – come in talune opere di Bresson, di Dreyer o di Ozu (ovvero i tre registi trattati da Schrader) – ne utilizza gran parte delle impostazioni estetico-concettuali, pur senza ricorrere a riferimenti diretti.

    <<Lo stile trascendentale si articola, secondo Schrader, in tre momenti distinti: Quotidianità, scissione, stasi. La prima fase, la quotidianità, è “una meticolosa rappresentazione dei banali, insulsi luoghi comuni della vita di tutti i giorni”2. Non si tratta però di realismo, bensì di una rappresentazione stilizzata e antirealistica della vita di tutti i giorni spogliata d’ogni dramma ed espressività…la quotidianità però è nettamente un preludio al momento della redenzione, in cui la realtà quotidiana è trascesa: Una tale rappresentazione della vita prepara dunque la realtà all’irruzione del Trascendente. La quotidianità, conducendo a un’incrinatura tra personaggio e ambiente, emozione e rappresentazione, produce un’azione, una rottura, la scissione. L’opaca superficie della realtà si incrina, l’inquadratura manifesta uno sbilanciamento, il personaggio lascia affiorare la propria angoscia. La scissione è una discordanza reale o potenziale tra l’uomo e il suo ambiente, che culmina in un evento decisivo>> 3.

    Ora come Bresson o Ozu pur seguendo quell’estetica neorealista alla quale resta coerentemente legato, anche De Seta parte dalla meticolosa osservazione del quotidiano scegliendo una rappresentazione efficacemente documentaristica. Egli stesso afferma a proposito dei documentari da lui girati a partire dagli anni cinquanta:

    <<Nel realizzare i miei documentari ho sempre cercato di privilegiare le esigenze della spontaneità rispetto a quelle delle tecnica. Mano mano che perfezionavo la tecnica, tendevo a influire sempre meno sulla realtà. Se dovevo riprendere i pescatori che dormivano, aspettavo che si addormentassero veramente. Se mi occorrevano scene di mietitura dicevo ai contadini di continuare a mietere come se io non ci fossi. Non pretendevo che si disponessero in un modo piuttosto che in un altro per usufruire di una luce particolarmente favorevole o per comporre un’inquadratura migliore. Posso dire di non aver mai sacrificato la naturalezza a esigenze determinate dalla forma”4.

    Nel passaggio al lungometraggio De Seta applica con profitto la tecnica e lo stile già usate nel documentarismo. Tuttavia, nel cinema di fiction, solo apparentemente tra realtà quotidiana, fotografata nelle sue gestualità antiche, ripetitive fino all’esasperazione (Banditi ne un classico esempio) e personaggi esiste una simbiosi. L’accordo è solo illusorio e la dissociazione è subito pronta ad esplodere. In tutte le opere cinematografiche di De Seta all’improvviso, così come avviene nel cinema trascendentale, ecco infatti prodursi la “scissione”, quell’istante in cui tra personaggio e ambiente si compie uno strappo. Così nell’esordio di Banditi ad Orgosolo (1961 premiato a Venezia come migliore opera prima), la lacerazione si compie nel momento in cui il pastore (Michele Cossu), ingiustamente accusato, diviene oggetto di persecuzione ed alla fine da oppresso reagisce convertendosi al banditismo. E così ancora nello “psicanalitico” Un uomo a metà (1966), quando il protagonista Michele (Jacques Perrin) – giornalista in crisi – comincia a perdere del tutto i contatti con il mondo circostante (il film è tutto visto in soggettiva), finché non farà i conti con il passato. Lo stesso avviene ne L’invitata (1969), in cui la protagonista Anna (Joanna Shimkus), tradita dal marito, perde improvvisamente le proprie certezze e riesce a ricollegarsi con il mondo solo dopo aver anch’ella vissuto la realtà del tradimento coniugale, dapprincipio ritrosamente rifiutata e poi accettata dopo un’intensa e tormentata confessione. E di “scissione” nell’ultimo Lettere dal Saraha, in cui la ricomposizione di Assane avviene ristabilendo il contatto con la madre terra, coattamente abbandonata.

    Alla “scissione” – considerata come seconda fase dallo schema proposto di Schrader (la prima è l’osservazione del quotidiano) – segue infine il momento della catarsi, ossia il verificarsi di un “evento decisivo” che spezza le “leggi della quotidianeità”. Secondo le parole dello stesso regista di Hardocore, American Gigolò ecc…, già sceneggiatore di molti film di Martin Scorsese ed altri notissimi registi USA, “l’evento decisivo costringe lo spettatore a un confronto con il Completamente Altro che normalmente eviterebbe. Il pubblico si trova di fronte a un’azione che necessita di una spiegazione spirituale e che avviene all’interno di un’azione che ora richiede la sua partecipazione e approvazione” 5. Insomma un vero e proprio “miracolo” attraverso il quale si compie e si esaurisce un percorso di riconciliazione con la realtà, al quale però lo spettatore viene preparato e artatamente condotto dallo stesso regista. Questa riconciliazione chiude lo schema “quotidianità-scissione-evento decisivo-stasi”, intendendo con “stasi” la pacificazione tra individuo e realtà in cui tutto torna a comporsi un unicum.

    Ovviamente per “miracolo” non deve necessariamente intendersi un vero e proprio intervento divino, sebbene – ad esempio in Ordet, la parola di Dreyer l’intervento divino è diretto (la protagonista, morta di parto, resuscita) – per miracolo deve piuttosto intendersi il totale ribaltamento delle premesse, la riconciliazione, la metamorfosi, la redenzione assoluta, un rientro e un accoglimento della realtà dapprima creduto impossibile. Sicché in Banditi ad Orgosolo paradossalmente la pacificazione del pastore-perseguitato con la realtà avviene con la “necessaria” conversione in “bandito”; in Un uomo a metà Michele esce dallo smarrimento dopo aver sciolto i nodi conflittuali interiori ed anche Anna de L’invitata accetterà finalmente i cedimenti della natura umana quando ne avrà compreso la consustanzialità. Anche nell’ultimo Lettere dal Sahara, come scrive Mino Argentieri su “Cinemasessanta”:

    “La volontà divina, a cui ci si affida e che si rispetta, è incessantemente invocata. Un senso del sacro pervade Assane e gli immigrati e questo per De Seta è un patrimonio prezioso, invidiabile, inavvertito da una civiltà industriale materialistica, sorda alla categoria del sovrannaturale e dello spirito. C’è in Assane la convinzione che nell’Occidente evoluto e prospero i soldi e l’agiatezza abbiano sostituito Dio. Il Dio di Lettere dal Sahara è ecumenico, può avere più di un volto, si erge al di sopra delle istituzioni e delle differenze, incarna un bisogno e un pensiero che De Seta reputa indispensabili così come giudica il credo religioso elemento essenziale e inespropriabile della identità culturale” 6.

    Ma ancora, come in una catena senza fine, la comunanza degli elementi strutturali tra il cinema di De Seta e quello trascendentale sono perfino riscontrabili nell’erranza. Come nota Alessandro Canale a proposito del cinema di Paul Schrader a cui ha dedicato un saggio

    “…(i suoi film raccontano di individui ‘a zonzo’ per la città, spesso di notte, che si imbattono in situazioni e persone). Ciò che Schrader mette in scena sono le deambulazioni e le derive dei personaggi che sono ‘angeli caduti’, colti in un momento di svolta della propria vita, collocati davanti i possibili e incerti cammini della loro esistenza (‘nel mezzo del cammin’ della loro vita). L’apparente attraversamento di alcuni generi (il noir, soprattutto) nasconde di fatto la riproposizione di una stessa struttura narrativa: quella della Via Crucis. E qui sembra giocarsi un rapporto non-riconciliato fra Hollywood come macchina produttiva, narrativa, spettacolare, animata da grandi star, e le forme stilizzate, astratte dello stile trascendentale” 7.

    Come è facile vedere, dunque, una analogia di situazioni e di modi di rappresentazione davvero impressionante. Perfino nella “cattiva sorte”. Anche per De Seta risulta del tutto naturale richiamare il rapporto non riconciliato tra il regista e la piccola macchina produttiva italiana, ove si ricordi che la RAI, a cui egli aveva proposto di realizzare una miniserie sulle disavventure di Assane (come ricorda ancora Argentieri), ha respinto la proposta.

Relazione letta dall’autore al Festival di Pisticci, agosto 2007
1 P. Schrader, Il trascendente nel cinema. Ozu, Bresson, Dreyer, Donzelli, Roma, 2002
2 Ivi, p.33
3 Alessandro Canadè, Paul Schrader. Tecniche di sceneggiatura e pratiche di regia nella New Hollywood, Le Mani, Genova, 2004, p. 24
4 Vittorio De Seta, cineasta e agricoltore, intervista di Virgilio Fantuzzi, in “La Civiltà Cattolica, 2007, II, 156-168, quaderno 3764.
5 Ivi, p. 69-70
6 M. Argentieri, Mai permettere che le radici siano strappate, in “Cinemasessanta”, n. 289, luglio-settembre 2006, p. 7.
7 A. Canale, cit., p.45.

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