PUPI AVATI E L’HORROR PADANO ANTE LITTERAM

La carriera di Pupi Avati non è stata sempre così facile, anzi. I suoi primi due film furono accolti male dal pubblico, ma già entrati nelle cineteche; andò meglio solo nel 1975 con La mazurka del barone, della santa e del fico fiorone, protagonista Ugo Tognazzi nella parte di un patrizio romagnolo, ateo e anticlericale, che si converte perché crede che una « santa » abbia dato alla luce un bimbo ai piedi di un fico fiorone di sua proprietà, già meta di pellegrinaggi devoti fin dal lontano Medioevo.

Come sei arrivato a questo film?

    « Dopo una serie di progetti defunti, cancellati da distributori e produttori, insensibili a mio mondo grottesco che, in definitiva, è il solo attraverso il quale io sappia esprimermi. Cinque anni di punizione dopo Balsamus l’uomo di Satana (1970) e Thomas e gli indemoniati (1970) non sono stati sufficienti a farmi cambiare idea. Mi sono ripresentato accompagnato ancora una volta da tutto il mio mondo, perché credo che il nostro cinema abbia bisogno anche di alternative di questo genere ».

E la storia come è nata?

    « Le origini delle mie storie sono strettamente imparentate con le mie stesse origini: un nonno ateo che venerava l’Angelo custode; un padre collezionista di quadri antichi, enormi, buissimi, misteriosi, dai quali, attraverso docce di trementina e di altri intrugli, affioravano dame, cavalieri, costellazioni di angeli e di santi, veneri callipige; un secondo nonno, antiquario, navigatore solitario sui mari d’Oriente, una zia miracolata, una schiera di parenti, scatenati cattolici o accesi comunisti. Non mi sono ribellato a niente di tutto questo. Ho accettato tutto. Ho amato e amo tutti, indifferentemente, perché so che così è la vita e che ognuno di loro ha vissuto il suo sogno in modo esauriente e fantastico. Il terrore di crescere, di perdere contatto con quel mondo, di farmi sordo e insensibile a quei ricordi, mi ha preservato, evitandomi il pericolo di frequentare consorterie culturali alla moda o gruppi di potere sempre asfissianti. E, ormai, mi sento assolutamente immunizzato. Da qui La mazurka, storia priva di pudore e di senso della misura. Non ho infatti pudore nei riguardi di sentimenti che, se provo, difendo e voglio raccontare, e manco totalmente di quel tanto lodato senso della misura che ha fatto disgraziatamente la fortuna di tanto nostro cinema. Calibrare, dosare, sfumare, suggerire sono termini mancanti al mio vocabolario. Se debbo dire, dico, “La palla che lanciai giocando nel parco, non è ancora ridiscesa al suolo“. È Dylan Thomas che l’ha scritto, è lui, il pazzo, morto senza permettere a quella palla di materializzarsi nuovamente, morto ancora aggrappato a quella illusione. I miei protagonisti provano tutti la seduzione di un sogno assoluto, di infinito. Perché io stesso la provo. E il mito, la leggenda, la favola di paese sonnecchiano qui, accanto a me, dando un senso di gioia dimenticata a tutto il mio lavoro. Gli antichi favolisti fantastici se ne sono andati, 1’uditorio di un tempo è scomparso. Lo scetticismo nei confronti di tutto ci ha ammalato. Non lo dico perché ambisco a valori assoluti, lo dico perché ambisco all’assoluto. I protagonisti pasoliniani, con il loro sorriso disarmante, anelano all’ineffabile. Il Dio della vendetta e della morte scende a raccogliere i resti umani dei protagonisti dell’Abbuffata. Non vedo altro nel panorama del nostro cinema. Tutto il resto è intrighetto, polemicuccia, preoccupazioncella e battutina. I nostri autori si vergognano di esserlo e perciò si cautelano auto-sfottendosi. Troppo terrore nei riguardi della critica che li definisca presuntuosi, troppa paura nei riguardi del pubblico che non li premi con teniture record. Il mezzo cinematografico permetterebbe a tutti noi di dare molto più di quello che diamo, ma pudore, scetticismo e terrorismo ideologico lo condannano a restare un fatto contingente, un rifornitore condannato a sfornare in eterno prodotti da consumarsi immediatamente, buttando via l’involucro perché non ne rimanga traccia. Un distributore bocciò un mio copione perché “era troppo bello!” ».

Di solito tu lavori molto sui personaggi di contorno dei tuoi film, sui « caratteri ». Perché?

    « Prima di tutto, per … vigliaccheria. Con il “carattere” mi sento più a mio agio. Ho cioè l’impressione di poterlo dirigere con maggiore scioltezza, senza quel rispetto reverenziale che, vuoi o non vuoi, si prova spesso nei confronti di un attore protagonista, e di successo. In secondo luogo, per affetto. Io amo molto le cose che faccio, e ne faccio talmente poche che godo a centellinarle, a gustarmele parlando con l’attore (quasi sempre mio amico fraterno), inventando con lui, e chiedendogli soprattutto di divertirsi. Gli attori della mia “famiglia” sono tutti un poco bambini e io sono più infantile di loro. Avrai potuto notare che nei miei tre film ho sempre usato gli stessi, a volte addirittura con ruoli di protagonisti, per poi relegarli, in operazioni successive, in ruoli addirittura secondari. In genere ho dato almeno una volta a ognuno di loro la possibilità di interpretare quello che avrebbero voluto essere nella vita. E non è stata una soddisfazione da poco ».

Questi « caratteri », spesso, li esasperi in modo violentissimo. Eviti però sempre che diventino delle « macchiette ». Qual è il tuo segreto?

    « La macchietta nasce da un certo tipo di aderenza alla realtà, da un certo tipo di coerenza scimmiottesca che non mi interessa. I miei amici attori “interpretano la follia”, spesso con una veridicità… preoccupante, e credo che non abbiano davanti a loro nessun’altra possibilità che quella di raffinare e migliorare questa loro “attitudine alla follia” ».

Di recente, in alcuni film italiani e in particolare nel tuo, si è potuto notare un « salto di registro ». Le storie, cioè, da comico-brillanti si trasformano in drammatiche, in liriche. Come lo spieghi?

    « Non avevo francamente valutato questo aspetto. Mi sembra comunque che già Dino Risi, ne Il sorpasso, avesse rivoluzionato le carte di un film per il novantacinque per cento brillante, facendolo sfociare in un finale drammatico. Per quello che mi riguarda, già in Balsamus avveniva una trasformazione sensibile di tono all’interno del racconto. Il grottesco, d’altra parte, offre in questo senso maggiori possibilità di qualunque altro genere. Anzi direi addirittura che lo richieda. Incomincio una storia assatanato di sensazioni, tramando combinazioni. I vecchi, cari, intramontabili surrealisti ci hanno messo gratuitamente a disposizione questi mezzi eccezionali. E io premedito, e il premeditare situazioni è già come fissare appuntamenti. Chi ha ossigeno in corpo bastante per raccontare, sa che gli appuntamenti non mancheranno e che nella storia, perciò, “tutto” potrà accadere. Così come nella vita, dove ognuno di noi ha occasione di recitare il proprio ruolo sul palcoscenico del vaudeville e, subito dopo, su quello del grand guignol ».

Il senso, il significato di questo tuo terzo film?

    « Un atto d’amore nei riguardi della vita. Un film che può turbare, a tratti stupire, ma che non può occultare il grande affetto che io provo per tutto quello che mi circonda. Sospetto sempre di chi imposta la propria vita sulla certezza, su una fede inattaccabile. Nella mia storia, invece, ogni valore viene stravolto e il finale si riserva una possibilità ulteriore di nuovi stravolgimenti. Chi si affida affettuosamente alla vita sa che tutto questo è possibile. Ognuno di noi combatte la propria battaglia per la conquista della felicità, disposto a qualunque bassezza pur di raggiungerla. Spesso però non ci si riesce. Le storie a lieto fine non sono più di moda. Io ho illuminato alcuni momenti della vita di un uomo. C’era una storia fantastica a disposizione e il mio personaggio l’ha vissuta, fino in fondo. Se i cattivi diventano buoni dovrebbero necessariamente diventare anche felici. Frank Capra ne era convinto. Ma questo purtroppo non accade nel mio film. La trasformazione e la “conversione” del mio protagonista cambiano ben poco attorno a lui, il cinismo del mondo continua e dilagargli attorno incontrastato. La Chiesa ristabilisce il proprio dominio sul sacro frutteto, le masse di pellegrini accorrono di nuovo incuriosite, ma il protagonista cammina nella direzione opposta: per cercare di preservare quel bambino appena nato da un mondo come quello che ha circondato lui fino a quel momento. Dove lo porta, però? Il film non risponde. Credo che nessuno di noi sia in grado, oggi, di rispondere a una domanda del genere ».

Cosa ti aspetti dal cinema?

    « Che dilati nello spettatore la sua area di coscienza. La sua forza di suggestione è enorme. Il cinema usa pezzi di realtà avendo l’occasione di mescolarli, comporli, stravolgerli, rivelarli. L’uomo, attraverso il cinema, ha conosciuto se stesso nella vita di tutti i giorni, ma ha scoperto anche di avere in comune, con altri uomini di altri continenti, sogni, paure, aspirazioni. Il cinema ha una sua grammatica che è diventata subito internazionale. I primi cineasti, però, la adoperavano con un senso di meraviglia che adesso in parte ci ha abbandonati. Siamo diventati troppo padroni della tecnica, troppo certi del risultato, troppo sicuri del “come” si ottiene un effetto. Per quel che mi riguarda, io vivo la mia tormentata esperienza cinematografica con un senso continuo di stupore nei riguardi del cinema e questa è in realtà l’unica vera molla che mi spinge oggi a fare dei film. Di conseguenza i miei film mi trascendono sempre, sono sempre qualcosa di diverso da come li avevo immaginati e hanno sempre una loro indiscutibile individualità. Vorrei che questa forma di “dilettantismo” contagiasse un po’ tutti gli autori italiani. Vorrei un maggior numero di film brutti, ma di un brutto assoluto, coraggioso. Vorrei che tutti considerassero il film che stanno facendo come l’ultimo, il definitivo. E allora, probabilmente, i produttori si rassegneranno anche a produrre qualche film “troppo bello!” ».

Pubblicazioni di riferimento: Cineforum (AA. e Nrr. VV.), Filmcritica (AA. e Nrr. VV.), Positif (AA. e Nrr. VV.), Chaiers du cinéma (AA. e Nrr. VV.), Bianco e nero (AA. e Nrr. VV.), 7 domande a 49 registi di Gian Luigi Rondi (SEI Ed.). 

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