MARCO BELLOCCHIO. REGISTA CATTIVO O ARRABBIATO?

La Cina è vicina di Marco Bellocchio uscì nelle sale italiane nel 1967: «È un film sulla fine delle opposizioni», dice. «Attraverso la storia della campagna per le elezioni amministrative in una città di provincia emiliana vorrei mostrare che in Italia ormai il sentimento politico dominante è la sfiducia o, peggio, una tendenza collettiva al cedimento. Arricchirsi e governare, denaro e potere sono i soli valori che resistono. Ma in un Paese in cui l’opposizione ha rinunciato alle sue possibilità di propulsione non c’è più dialettica e quest’assenza è la premessa dell’immobilismo, della morte politica, del regresso.»

    Il regista lavora pacato, professionale. Dirige gli attori con una estrema delicatezza spezzata ogni tanto da grida isteriche, da rimproveri furiosi. Nevrotico, ma non nervoso. Tutto contento che quarantun deputati democristiani si siano coalizzati contro di lui chiedendo una modifica alla legge sul cinema perché, dicono, lo Stato non può finanziare con i premi di qualità pellicole perniciose come il suo primo film I pugni in tasca (1965), dove «il mostruoso comportamento del protagonista sembra esaltare il bestiale desiderio di vivere sopprimendo ogni pur doveroso e sacro vincolo familiare».

    Tutto intento a fabbricare alacremente con La Cina è vicina il prossimo scandalo, l’ulteriore provocazione destinata a rafforzare la sua fama di ragazzo cattivo del cinema italiano. Magro, occhi molto freddi, modi presuntuosi, sicurissimo di sé, Bellocchio è nato a Piacenza in una famiglia di sette fratelli e ha frequentato scuole religiose ricevendo una rigida educazione cattolica. Poi l’emancipazione, rappresentata dal cinema come mezzo d’espressione. Ne I pugni in tasca, il suo primo film, aveva descritto la fine della famiglia borghese in modo crudele e beffardo, mostrando gusto per il macabro e per l’orrido come mai si era visto in un film italiano.

    Ne La Cina e vicina, invece, il bersaglio è il socialismo governativo, la corruzione del potere, la rivoluzione mancata. «Quello che mi ha colpito di più in questi anni» -spiega – «è la disinvoltura del passaggio di un partito dall’opposizione al governo. Oggi nessuno crede più al fatto che, pur restando all’opposizione, si possa determinare in una certa misura la politica, quindi governare. Il discorso vale per il Partito socialista, ma è ancor più stupefacente per il Partito comunista: sistematicamente respinto, vuole a tutti i costi integrarsi col potere. I comunisti hanno deciso che basta, tanto vale accodarsi alla socialdemocrazia. I gruppi cinesi credono invece che esista in Italia, a più o meno breve scadenza, la possibilità di un salto rivoluzionario; e sono convinti che l’integrazione delle sinistre al potere distrugga o almeno ritardi indefinitamente questa possibilità.» Lui la Cina la sente tanto vicina da approvarne quasi tutto, anche la messa al bando delle opere di Shakespeare o la sorprendente nuotata del presidente Mao.

    «È sciocco fare della facile ironia», insegna e pontifica. «Bisogna invece capire che se una rivoluzione viene applicata in modo totale, ci saranno inevitabilmente campi in cui questa applicazione è meccanica, dogmatica.» Parla sempre così: autoritario, definitivo. L’unico regista che considera un maestro è Luis Buñuel, di cui ammira il sadismo liberatorio. Quanto agli altri, fa presto a giustiziarli: gli inglesi sono formalisti, attraenti ma falsi; i francesi sono antipatici per il loro sfrenato snobismo. Degli italiani, «dato che parlando in termini marxiani un regista si giudica dall’ultimo film, si può dire che Visconti si è completamente svuotato, che Antonioni ripete i propri temi in modo più fievole e manieristico, che Fellini con questo Giulietta ha fatto veramente un capitombolo».

    Respinge con indignazione la definizione di arrabbiato. «L’arrabbiato è uno che se la prende in maniera generica contro tutto, è come un anticorpo che la società produce per rafforzare le proprie difese. La rabbia finisce sempre per diventare crepuscolare; quella italiana poi ha un fondo di romanticismo che aborro.»

LIETTA TORNABUONI

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