MICHELANGELO ANTONIONI, IL FUTURO AFFASCINA E INTIMORISCE

Fra i « grandi » del cinema di oggi, Leone d’oro a Venezia, Palma d’oro a Cannes, Orso d’oro a Berlino, una carriera pluridecennale e molti film fra i più rappresentativi dell’arte cinematografica contemporanea, tra i quali ci soffermiamo su Professione: reporter (1975), unanimamente salutato dalla critica come uno dei suoi più alti e più maturi, e accolto da pubblico con un consenso senza riserve.

Ormai non siamo più soltanto noi critici, come ai tempi de L’avventura e de La notte, a sostenerti con entusiasmo. Adesso, da Blow-Up in poi, è anche il pubblico, e quello più vasto. Come spieghi questo cambiamento?

    « Oggi il pubblico è maturo e certi temi, un certo linguaggio gli arrivano ormai senza difficoltà. Quanto a me, direi che, istintivamente, senza nemmeno pormi il problema, ho forse finito per trovare il modo di rendere i miei film più… come posso dire? Gli americani direbbero exciting, più interessanti, ma non è la parola giusta. Più precisamente: ho forse trovato il modo di avere meno ritegno nel manifestare emozioni e sentimenti. Forse di approfondire di più la materia e trattarla con mano più abile, anche. Non so bene. Un film – non mi stancherò mai di ripeterlo – non ha bisogno di essere “capito”, basta che sia “sentito”. Per ogni spettatore vedere un film deve essere soprattutto una esperienza personale, intuitiva. Come quando uno legge una poesia. Chi si sognerebbe di farsi spiegare una poesia? Professione: reporter, ad esempio. L’ultima sequenza, quella lunga inquadratura senza stacchi: il pubblico non ha nessun bisogno di capirla dal punto di vista tecnico, basta che senta la suggestione di quel lento fluire delle cose dentro la finestra, mentre la macchina da presa avanza lentamente ».

In Professione: reporter, comunque, la tecnica ha un’importanza tutta particolare, anche se non è insolito, nel tuo cinema.

    « Qualcosa di insolito mi sembra che ci sia. In genere non ho mai fatto movimenti di macchina che non fossero giustificati dai movimenti dei personaggi. Qui invece la macchina va per conto suo, come se avesse per le cose e i paesaggi e le persone lo stesso interesse che ha il reporter protagonista del film. E questo perché? Mi sembra quasi presuntuoso rispondere. Io lavoro molto istintivamente e i significati di certe tecniche mi si chiariscono dopo. Per esempio, rivedendo il film mi vien fatto di chiedermi: come mai ho girato così quella scena? Sembrerà strano, ma una risposta la trovo sempre, senza che ci avessi mai pensato prima. Un’auto
che spunta dal niente durante una panoramica, chissà, forse mi è stata suggerita dal fatto che portava a bordo un personaggio senza passato e con il passato di un altro che è morto. Altra libertà che mi sono presa: quella di pormi di fronte a ogni sequenza in un atteggiamento di verginità. A pensarci bene, si può dire che non c’è unità tecnica nel film. Ogni sequenza è girata in modo diverso dall’altra perché i contenuti erano diversi. Alla fine però tutti questi modi diversi mi sembra che ritrovino una loro unità, che sarebbe poi il mio atteggiamento nei confronti della storia che racconto ».

Professione: reporter è uscito nel 1975. L’ultimo tuo film, a parte il documentario televisivo sulla Cina, Chung Kuo – Cina, che è del ’72, è stato Zabriskie Point che risaliva al ’70. Come mai una pausa tanto lunga?

    « Perché nel frattempo ho preparato due film. Uno, tecnicamente dolce, mi ha fatto perdere quasi due anni. La sceneggiatura era pronta, avevo fatto anche i sopralluoghi, in Sardegna e nella giungla, poi Carlo Ponti, che aveva ereditato il progetto da altri produttori, decise alla fine di non farne più nulla. Probabilmente ebbe paura che dalla giungla io non uscissi più o mi mettessi a dipingerla… L’altro film me lo aveva ispirato un racconto di Calvino, Il guidatore notturno. In un primo tempo si intitolava La spirale, poi Il colore della gelosia. Era l’ossessione di un uomo geloso che andava di notte in automobile dalla città in cui abitava a quella della propria amante. Anziché con la macchina da presa, dovevo girarlo con le telecamere: per avere un maggior controllo del colore. Fui io però, in quell’occasione, a entrare in crisi; sulla sceneggiatura. Mi parve di non aver trovato la chiave giusta e rinunciai. Intanto però se n’era andato un altro anno ».

Hai dichiarato che il tuo prossimo film sarà di argomento italiano perché realizzando film ambientati sempre fuori Italia cominci a sentirti sradicato. Una cornice, una lingua possono rappresentare per te delle radici?

    « Siamo tutti radicati a una lingua, a una cultura, all’ambiente storico. Girando in altri Paesi ho finito per assimilare certi aspetti, perdendo qualcosa di quello da cui provenivo. Un po’ come quegli scrittori che vivono sei mesi negli Stati Uniti e sei mesi in Europa. A un certo momento non sanno più cosa raccontare. E in questo senso che dicevo che ho bisogno di ritrovare le mie radici. Adesso vorrei raccontare la storia di persone nate e vissute in Italia. Magari all’ultimo momento questo Paese, che ci dà già i brividi se lo si guarda bene, improvvisamente ti respinge e ti fa cambiare idea. Lo so, non è una critica molto originale ormai, ma può forse essere originale cercare di amarlo lo stesso, questo Paese, pur disprezzandone una parte. E quando dico “una parte”, intendo proprio una gran parte dii gente, quella che vediamo nelle strade, nei locali. A volte mi sembra di appartenere a un’altra razza ».

E il tuo cinema?

    « Potrei rispondere che il mio cinema è quello che è perché io sono quello che sono. C’è chi dice che sono un regista tipicamente d’élite. La verità è che io ho nei confronti delle faccende artistiche un atteggiamento più sciolto, meno impegnato di quanto si pensi. Sono sempre degli interessi personali che mi muovono. I personaggi dei miei film sono tutti inventati, ma nello stesso tempo sono anche reali perché è la realtà a suggerirmene i modelli. Basta una battuta ascoltata, un gesto, una faccia, un’espressione, un fatto, un racconto che qualcuno mi fa. Questo spunto si allarga, diventa una sequenza, la sequenza un blocco di sequenze, e si arriva alla storia completa. Non si sa mai bene come questo avvenga. Forse c’entra anche una mia esigenza, di fare un film ogni volta per qualcuno. No, non il pubblico, una persona precisa, un amico, una donna. È sempre stato così. Come quando da giovane giocavo a tennis. Se avevo un pubblico, giocavo meglio. Una volta, a Bologna, nella finale di un torneo non c’era nessuno. E ho perso i primi due set. A poco a poco è venuta gente e ho vinto gli altri tre.  C’è un’altra cosa che vorrei aggiungere. Mi piacerebbe che i miei film uscissero con una discrezione che invece le esigenze pubblicitarie escludono. La pubblicità grida che il film è bello, bisogna andarlo a vedere, ammirarlo. Invece la bellezza, quando c’è, dovrebbe comparire quasi con noncuranza, sottomessa a un altro fine, senza arroganza,».

Ha un peso, nei tuoi film, l’autobiografia?

    « Esiste un solo modo di essere autobiografi.ci: esserlo aperta’ mente, senza mezze misure. Ossia non considerare quello che si scrive o si mette in un film materiale privato. Ci vuole una certa dose di sfacciataggine per fare questo, e io non ce l’ho. Il mio modo di essere autobiografico è un’altra cosa, e cambia secondo le persone che ho visto, quello che ho fatto, la luce che mi ha accompagnato da casa mia o dall’albergo al posto di lavoro. Tutto questo influenza il mio modo di girare, di risolvere una sequenza. Che poi in certi personaggi si possa trovare qualche cosa di me, è naturale. Sarebbe innaturale il contrario ».

E domani?

    « Il cinema così com’è comincia a stancarmi. Ci sono troppe limitazioni di carattere tecnico. È ridicolo che oggi si debba ancora usare una macchina da presa non molto dissimile da quelle di trent’anni fa, che si debba ancora penare tanto per trasfigurare la realtà e farla aderire alle nostre fantasticherie. Non abbiamo la possibilità di dominare il colore completamente; di usarlo come fanno i pittori. Per questo avevo pensato alle telecamere, e ci sto pensando ancora per i miei prossimi film. Perché solo con il nastro magnetico è possibile evitare i compromessi che il laboratorio di sviluppo e stampa impone. Sul nastro, i colori possono essere corretti elettronicamente. Ci sono, è vero, molte altre complicazioni tecniche, ma i vantaggi sono enormi. Tu mi chiedi: e domani? Ma questo domani potrebbe già essere oggi, se non ci fosse la struttura industriale del cinema a impedirlo. Sarebbe la fine del pellicola, dei laboratori di sviluppo e stampa, delle macchine da presa e di almeno un terzo dell’impianto commerciale del cinema. Credi che sia facile distruggere tutto questo? Tra tutte le arti, il cinema è quella che ha più innesti nella vita: bisognerebbe cominciare a cambiare anche questa. Così com’è, non è che sia organizzata così bene ».

Pubblicazioni di riferimento: Cineforum (AA. e Nrr. VV.), Filmcritica (AA. e Nrr. VV.), Positif (AA. e Nrr. VV.), Chaiers du cinéma (AA. e Nrr. VV.), Bianco e nero (AA. e Nrr. VV.), 7 domande a 49 registi di Gian Luigi Rondi (SEI Ed.). 

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