L’IMMOBILISMO E LE FRAGILITÀ DELLA BORGHESIA NEL CINEMA ITALIANO

L’incapacità, quasi strutturale, della borghesia di uscire da se stessa è stata più volte – e a diversi livelli – rappresentata nel nostro Cinema. Mi piace, anzitutto, ricordare Prima della rivoluzione, del 1964, diretto da Bernardo Bertolucci, che nello scrivere questo film si ispirò a La Certosa di Parma di Stendhal.

    Un giovane uomo, della buona borghesia parmense, vive in modo conflittuale il suo rapporto col Partito comunista. Nello stesso modo affronta la relazione sessuale, vagamente incestuosa, con la zia – strepitosa Adriana Asti – una signora cronicamente depressa, ma bisognevole di dare ed avere attenzioni. Alla fine, il protagonista rinuncerà a tutto, perché sconfitto dalla “dolcezza del vivere” che invece aveva, inizialmente, contrastato per sentirsi vivo. Nel suo vagare per le vie di Parma, incontra un amico cinefilo – forse il prototipo del futuro intellettuale di Sinistra – che gli racconterà di aver visto Viaggio in Italia ben quattordici volte, concludendo come la vita sarebbe ben poca roba senza Rossellini.

    Ho pensato al dilemma – etico ed estetico – degli artisti della Sinistra italiana, divisi tra aderenza al dato reale e fuga verso l’utopia: insomma – una per tutte – all’eterno dibattito pittorico tra il realismo di Guttuso e l’astrattismo di Turcato. Per abitudine, anzi paura, il giovane uomo sceglierà non di vivere, ma di sopravvivere, sposando la sua storica fidanzata di buona famiglia.E questa rinuncia, forse, gli farà capitalizzare violenza e frustrazione destinate poi a venir fuori.

    Un film sociologicamente profetico, perché Bertolucci anticipa ciò che il suo Maestro Pasolini scriverà qualche anno dopo a proposito dei sessantottini romani: “Siete paurosi, incerti, disperati (benissimo) ma sapete anche come essere prepotenti, ricattatori e sicuri: prerogative piccolo-borghesi, amici. Quando ieri a Valle Giulia avete fatto a botte coi poliziotti, io simpatizzavo coi poliziotti! Perché i poliziotti sono figli di poveri“.

    Qualche anno più tardi, nel 1968, sarà lo stesso Pasolini con Teorema a narrare una parabola simile, sia pure con toni ed accenti diversi.

    Una famiglia alto-borghese di Milano ospita un giovane uomo (Terence Stamp) assai enigmatico e dalla bellezza luciferina. Questi entra in contatto, anche sessualmente, con i vari componenti, avendo la capacità di cogliere i lati più profondi ed irrisolti del carattere di ciascuno. L’elemento sessuale – che nell’ottica del Regista assurge a forma primaria di conoscenza – destabilizza tutti i personaggi del film sia moralmente che ideologicamente. Improvvisamente, l’ospite sparisce, come se non fosse mai esistito, ma ognuno porterà con se’ i segni di questo incontro, cambiando radicalmente le proprie prospettive: bellissima Silvana Mangano – Coppa Volpi per l’interpretazione nel ruolo della madre – che elegge l’ospite a figura messianica, in quando unico essere al mondo ad averle insegnato cosa sia l’amare e l’essere amati.

    Con questo film – che subì un articolato iter giudiziario per oscenità – viene chiaramente rappresentato il teorema pasoliniano per cui la borghesia, autoreferenziale e criminaloide, e’ ontologicamente incapace di interagire col diverso e dunque – non sapendo mediare – è destinata a soccombere o a convertirsi. Primo fra tutti, il padre (Massimo Girotti) che finirà col regalare la fabbrica ai propri operai e – dopo essersi francescanamente denudato alla stazione centrale di Milano – vagherà in un paesaggio immediatamente divenuto primordiale, urlando tutta la sua disperazione o forse inneggiando alla sua totale liberazione.

   Il diverso, dunque, a distanza di oltre mezzo secolo – sopravvive come fonte primaria di destabilizzazione di una borghesia – al tempo stesso immobile e fragile – generando odio o paura.

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