LE PATERNITÀ BIOLOGICHE E LE PATERNITÀ ELETTIVE NEL CINEMA ITALIANO

La necessità per un figlio di instaurare un rapporto col padre – per chiarire, ad esempio, un interrogativo etico – e, specularmente, il bisogno di un padre di proiettarsi in un figlio, per volontà, anche solo narcisistica, di trasmettere e tramandare, sono temi talmente radicati nella natura umana da oltrepassare i confini di una paternità semplicemente biologica.
Questa necessità, infatti, a volte può sfociare – anzi meravigliosamente approdare – anche in una dimensione elettiva.

    Penso che il nostro cinema abbia lasciato tracce memorabili, su entrambi i fronti. In tema di paternità biologica – spesse volte più conflittuale di quella elettiva – citerei La corruzione, diretto da Mauro Bolognini nel 1963.

    Stefano (Jacques Perrin), un giovane appena diplomatosi, lasciato il collegio, torna finalmente a Milano dai propri genitori. Troverà un quadro difficile: il padre (Alain Cuny) sempre più cinico nel suo ruolo di affermatissimo editore; la madre (Isa Miranda) che da anni ha rinunciato a vivere, perché sempre più attratta dalla cura del sonno.
Stefano, unico figlio di questa complessa coppia, progressivamente comincia a prendere coscienza del proprio disagio: non solo perché intuisce di essere il frutto di un amore in realtà mai esistito tra i genitori; ma sopratutto perché si sente investito, quasi schiacciato, dalle enormi aspettative che questo potente ingombrante padre, da sempre nutriva nei confronti suoi confronti.
Aspettative che mai potranno conciliarsi con la scelta, nel frattempo, maturata dal ragazzo: diventare prete.

    La vocazione di Stefano sarà contestata, non compresa ed infine astutamente compromessa dal genitore che, durante un week end in barca, fa cadere in tentazione il figlio con una splendida escort (Rosanna Schiaffino), appositamente invitata per distogliere il ragazzo dai suoi propositi. Stefano rinuncerà a prendere i voti, ma quando un dipendente del padre si uccide perché da questi ingiustamente accusato di furto, la sua etica – sebbene ormai laica – prenderà il sopravvento in tutto il suo rigore: Stefano giura eterna battaglia al padre sullo stesso territorio di corruzione in cui il genitore lo ha violentemente trascinato. Viceversa, la paternità come evento non biologico, ma elettivo – dettato dal bisogno di trasmettere e tramandare – è il tratto dominante di Gruppo di famiglia in un interno, penultimo film di Visconti, diretto nel 1974 e vincitore di 6 Nastri d’Argento.

    La misantropia di un vecchio Professore (Burt Lancaster) – il cui personaggio fu ispirato all’anglista Praz ed alla sua casa museo di Roma – viene scalfita dall’arrivo di tre ragazzi, tra cui spicca l’ambiguo Konrad (Helmut Berger), gigolò della bellissima, quanto amorale, Marchesa Brumonti (Silvana Mangano).

    Il film, girato completamente in un interno – sintomo forse del disagio che il Regista andava ormai attraversando – si caratterizza per il rapporto osmotico tra la casa ed il protagonista: da un parte, la minuziosa rappresentazione degli oggetti in essa contenuti – magnifici pezzi di alto antiquariato – che progressivamente si soggettivizzano, dialogando sempre più col vecchio Professore, fino a fagocitarlo del tutto; dall’altra, la personalità del protagonista che sembra proiettarsi perfettamente nella casa, al centro della quale vi è uno stanzino segreto, matto, da tutti ignorato. In esso, rappresentazione forse dell’inconscio del Professore, questi una notte segretamente soccorre Konrad – malmenato da loschi spacciatori – maturando quel processo di adozione e presa in carico che caratterizza il film.

    “Amor ch’a nullo amato amar perdona“, sicché la voglia di paternità del protagonista si trasforma, quasi specularmente, nel bisogno di essere adottato da parte del giovane Konrad, sempre più desideroso di imparare dal Professore, perché perseguitato dalla ricerca di un riscatto umano e morale. Ma l’Amore che si pensava di aver, finalmente, incontrato si scopre essere invece la Morte, presentatasi sotto mentite spoglie: Proust, Mann, perfettamente miscelati in quello possiamo considerare il testamento spirituale di Luchino Visconti.
Magnifici film, ingiustamente dimenticati, ma sempre attuali.

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