L’OPERAIO NEL CINEMA ITALIANO

L’imborghesimento della “classe operaia” è stato un tema più volte rappresentato nel nostro Cinema, inevitabilmente suscitando accesi dibattiti.

Michelangelo Antonioni ne Il grido (1957), ad esempio, narra la storia di due amanti, Aldo (Steve Cochran), operaio in una fabbrica ed Irma (Alida Valli), sposata ad un uomo emigrato all’estero da diversi anni. Alla notizia della morte del marito di Irma, Aldo vorrebbe sposarla, ma lei gli confessa di amare un altro uomo.

La scoperta sconvolge il protagonista che, perso il lavoro, comincia a vagare per le campagne emiliane, incontrando altre donne con le quali non saprà, però, interagire. Il malessere interiore aumenta, portando Aldo alla depressione più profonda: tornato in paese, questi vorrà incontrare Irma per lanciarsi dalla torretta della fabbrica in cui lavorava. Questa sequenza finale sarà rappresentata dal regista tramite un intenso, memorabile, primo piano di Alida Valli che griderà, disegnando col suo sguardo il volo in caduta dell’uomo, quasi a denunciare il proprio pentimento.

La fotografia, come in tutti i film di Antonioni, è magnifica: il paesaggio della campagna emiliana, essenziale e muto, contaminerà il protagonista, alimentando progressivamente il suo malessere.

Questo film è davvero innovativo: in quegli anni, infatti, cominciavano a proporsi nel nostro Cinema personaggi femminili benestanti, non più legati a bisogni primari, destinati però ad una conflittualità per sopravvenuti mali dell’anima. Questo binomio donna borghese-alienazione, che tanto influenzerà il cinema francese, forse per la prima volta, viene sovvertito con Il grido: l’alienazione, qui, colpirà non una donna, bensì un uomo, per giunta operaio.

Con questa licenza poetica, il comunista Antonioni rappresenta dunque un operaio non più, retoricamente, come una cellula di partito, destinato alla lotta di classe o ad una rivendicazione sindacale, ma come un uomo, senza sovrastrutture ideologiche, con la propria individualità, che si perde per amore.

Lo stesso tema sarà, quasi contemporaneamente, rappresentato da Pietro Germi ne L’uomo di paglia (1958), ma secondo una logica diametralmente opposta. Qui Andrea Zaccardi (Pietro Germi) è un operaio romano, sempre in cravatta, impeccabilmente rasato, che vive in una casa leziosamente arredata. La domenica è solito andare a caccia, compassato come un Lord inglese, fiero del suo cane meticcio. Approfittando della lontananza della moglie (Luisa Della Noce) – trasferitasi momentaneamente al mare per far respirare aria buona al figlio – Andrea intreccia una relazione sentimentale con la vicina di casa (Franca Bettoja) che poi lascerà per tornare all’ovile.

Questo dramma borghese diventa tragedia quando l’amante si uccide ed il protagonista, vinto dai sensi di colpa, si confessa alla moglie che, tuttavia, aveva già intuito il tradimento del marito.Alla fine vi sarà il ricongiungimento matrimoniale, ma forse non il perdono perché, a ben vedere, “nulla potrà più essere come prima”.

Questo film fu fortemente criticato dalla intellighentia di sinistra: un operaio, non in tuta, che recupera il proprio Io per una delusione sentimentale, accantonando ogni forma di rivendicazione ideologica, di collettivismo, non poteva non essere destinato a soccombere.

Invece il Germi socialista, con una visione laica e riformista – ove anche il matrimonio, come istituzione, non si pone necessariamente in contrasto con l’appartenenza al partito – salva invece il protagonista, quasi premiandolo.

Un film assolutamente anticipatore e sincero: Germi, in modo asciutto ed efficace, racconta l’Italia agli italiani, tramite la vicenda di un uomo libero che – al di là del contesto sociale di appartenenza – si mette in gioco con i propri sentimenti per poi tornare dalla moglie “cresciuto” per effetto di un’esperienza non politica né legata alla lotta di classe.

Eccoli gli operai sul prato verde a mangiare: non sono forse belli ?” (Sandro Penna)

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