FRANCO MANNINO, IL CINEMA, LE COLONNE SONORE

Il 1° febbraio 2005 si spegne il compositore e direttore d’orchestra palermitano Franco Mannino, Nel corso della sua carriera ha scritto oltre 620 composizioni, tra le quali 151 colonne sonore per il cinema; e proprio il suo contributo alla settima arte lo rende “centrale” anche nel panorama cinematografico siciliano e nazionale. Lo incontrai a casa sua, a Roma, alcuni decenni fa, e dell’intervista che mi rilasciò ne rimasi colpita.

  “È ostinato, estroverso, ironico, con imprevedibili, sconvolgenti, ingiustificate ribellioni e rapide bizze da fanciullo”.

  “Le sue repulsioni sono stupefacenti, assolute, violente”.

  “Non ha avuto un’infanzia, né giochi, né spensieratezza”.

  “Lo invidiano, è naturale: lui compone e le sue opere, le sue colonne sonore cinematografiche, i suoi poemi sinfonici, le sue suonate, le sue fughe i suoi capricci hanno successo in tutto il mondo: lui compone e la gente lo adora, e i suoi concerti sono acclamati, applauditi, esaltati. Renzo Rossellini arrivò a scrivere su Il Messaggero che “il suo pianismo liberale e travolgente ricorda da vicino le prodezze di Arthur Rubinstein“; lui compone musica da film e quella musica impreziosisce la pellicola; lui dirige le orchestre che si fanno creta sotto la sua bacchetta, le platee si sciolgono immancabilmente in una lunga, adorante ovazione, gli studi di registrazione vibrano, i teatri nelle capitali si animano, assumono puntualmente il tono delle grandi occasioni, diventano più belli”.

  Così dicevano di Franco Mannino la sua segretaria, il suo press-agent, i suoi amici, gli ammiratori, tutti quelli che facevano parte del suo entourage e gli erano vicini, seguivano la sua attività, conoscevano il suo carattere, i suoi gusti, le sue debolezze.

  Lui, Mannino, non aveva tempo, probabilmente, di verificare ciò che gli altri dicevano di lui: un giorno a Roma e una settimana a Parigi, quarantotto ore a Mosca e l’indomani a New York, un recital a Palermo e in sala di registrazione a Milano, una “prima italiana” a Napoli e una “prima mondiale” a Londra.

  La sua arte, il suo talento, la sua tecnica erano adattate a precise regole commerciali, con una équipe di segretari che si preoccupava di amministrarle e farle fruttare; con un manager che teneva i contatti con le case discografiche, i produttori cinematografici, gli organizzatori musicali, le sovrintendenze degli Enti lirici; con un addetto-stampa che curava i rapporti con i quotidiani, i periodici, le riviste specializzate italiane e straniere e si preoccupava che le fotografie siano sempre perfette, nitide, significative, attuali e che la biografia fosse sempre aggiornata, esauriente.

  Aveva modi franchi, sicuri e un sorriso aperto, simpatico, da uomo di mondo rotto dal successo, abituato agli entusiasmi plateali della folla, agli eccessi dei fan, all’ammirazione esplicita delle donne, così irrimediabilmente coinvolte nelle maglie di una esistenza concitata e subnormale da non potere concedere agli altri niente di più che una simpatia blanda, senza partecipazione o una insofferenza rapida, senza conseguenze.

  Agli uomini non era simpatico: li infastidiva il suo successo che attribuivano alla fortuna, così irrazionale, imprevedibile e ingiusta, li irritava l’inclinazione delle donne che definivano casuale, distratta, suggerita dal capriccio piuttosto che dal sentimento, li indisponeva la sua noncuranza, un po’ indolente e un po’ volontaria, da esponente dello smart set, la sua premeditata mancanza di partecipazione agli odi e ai rancori. Passava attraverso le passioni che suscitava, lasciandosene appena sfiorare, senza arrivare mai a percepirle per intero, senza averne coscienza, in maniera diretta e precisa, senza poterne misurare l’intensità, la forza, il significato, continuamente occupato a fabbricare note, a studiare nuove combinazioni musicali e ad armonizzarle assieme, a creare dissonanze e distonie, melodie strappate e singhiozzi incoerenti, elemento propulsore e ingranaggio della miracolosa industria dei suoni, di cui era inventore, azionista, contabile, soprattutto cucendo addosso ad un film la musica che lo vestirà.

  La sua splendida casa romana tutta era espressa intorno a un salone-veranda che guardava il fiume, i colli, i giardini, ricca di cose preziose e raffinate, tappeti, specchi, soprammobili , candelieri, oggetti d’antiquariato, un pianoforte a coda estremamente cinematografico e un pianoforte da studio, piccolo e perfetto, al quale strappava suoni aspri e rabbiosi, concitati e barbarici, un leggio obliquo, regolabile, identico a quello che usano gli ingegneri e architetti, sempre ingombro di spartiti e di fogli bianchi ai quali affidava una improvvisa sensazione musicale, un’emozione da tradurre in note, era disseminata di telefoni: Mannino li teneva accanto, li accarezzava, li avvolge in lunghi sguardi affettuosi.

  La sua conversazione era sciolta, precisa, un po’ pignola, tutta punteggiata di date: in giugno avrebbe suonato Mozart al Festival di Vienna, in settembre avrebbe diretto un concerto dei tre Kogan al Santa Cecilia della sua Palermo, il due febbraio dell’anno successivo avrebbe presentato al Deutsche Staatsoper di Berlino due operette ricavate da Thomas Mann, Mario e il mago e Luiselle, che ha adattato al teatro; sta già lavorando a due colonne sonore per un film di Giuseppe Patroni Griffi e per Luchino Visconti: Identikit e Gruppo di famiglia in un interno.  Gli ingranaggi della macchina miracolosa sono in perfetta sintonia. Non c’è posto per l’imprevisto, per l’errore, per la disattenzione.

  “Lavoro diciotto ore al giorno – sostiene Mannino con il più disarmante dei suoi sorrisi. – Alle cinque del mattino sono già in piedi: il riposo mi innervosisce, il sonno mi deprime, le vacanze mi sfibrano.

  Mi esercito al pianoforte quattro ore consecutive. Poi, senza perdere tempo, studio le partiture nuove, abbozzo una suite, invento una cavatina, perfeziono un capriccio. Poi corro al Conservatorio  per le prove con l’Orchestra e per le lezioni. Di seguito, torno a casa, ascolto le incisioni, apporto le necessarie modifiche, introduco piccole, indispensabili variazioni”.

  E mentre parlava cercava di fare fruttare il tempo, di trasformare il denaro anche in secondi, di concludere attraverso il segretario l’affare vantaggioso, di perfezionare, per mezzo del domestico-confidente che lo seguiva nelle tournée, gli dava consigli, non gli faceva mai venire meno i segni di una devozione sommessa e tenace, l’incontro determinante.

  Nervoso, attivo riempiva le lettere con una calligrafia strana, bizzarra, un po’ infantile, con improvvise parole maiuscole nel corso di una frase, con espressioni ripetute, cancellature senza senso, con una sorprendente dissipazione di virgole grosse, scure e marcate come altrettante semicrome, con una manciata di punti esclamativi buttati a caso.

  “La musica ha esaltato la mia infanzia. Da bambino le canzoni che ascoltavo alla radio, i brani d’opera, i grandi poemi sinfonici mi rapivano. Volevo suonare anch’io. Mi Trasferii a Roma che avevo appena otto anni. A quell’età sapevo già gestirmi, organizzarmi, disciplinarmi. Volevo diventare un grande musicista ed ero disposto a qualsiasi sacrificio. La mia ambizione giustificava le mie rinunce e le rendeva lievi, tollerabili, gradite. Stavo al pianoforte anche dieci ore consecutive.  Anche dodici, finché le dita non mi dolevano e gli occhi non mi bruciavano per la lunga concentrazione”.

  È lucido, tagliente, interessato: il desiderio di affermarsi, di far sentire la sua voce, di esprimersi ha condizionato la sua esistenza, ha determinato le sue scelte, ha dato un senso alla sua vita. Un uomo stimolato da una premeditata volontà costruttiva, mosso da un sentimento aggressivo della vita, da un entusiasmo pionieristico nei confronti del mondo. Il mondo come terra di conquista.

  “Mi piace lavorare, viaggiare, costruire, lasciare un segno di me. E mi piace plasmare gli altri, spiare il mutamento delle loro personalità sotto la mia influenza, cogliere gli aspetti rivelatori di un nuovo modo di essere e di sentire: ho iniziato Visconti al teatro e Filippo Sanjust, ho sensibilizzato le qualità di Zeffirelli e di Wachievitz, ho collaborato con Margherita Wallmann e sono riuscito a suggestionarla, a marcare il lei la traccia delle mie intuizioni. Amo Visconti, Sanjust,  Zeffirelli, Wachievitz e la Wallmann perché appartengono alla mia generazione o a quella precedente: con quelli che vengono dopo non mi trovo a mio agio. Viviamo l’età del “freddo”: tutto calcolato con eccessiva precisione, via gli slanci, le passioni, l’istinto, le improvvisazioni. I compositori oggi si affidano ai sistemi come se la musica fosse algebra, i pianisti sono perfetti, inattaccabili e senz’anima – rimpiango la voluttà di Chopin che suonava sbagliando le note e deploro i meccanismi degli interpreti moderni che annullano freddamente i rapimenti, le evasioni, gli abbandoni, in ossequio alle regole senza calore del tecnicismo – i direttori rifiutano il decadentismo, le debolezze romantiche e offrono esecuzioni dure non verificate dal soffio di una partecipazione sentimentale.

  Anche Bach si serviva dei sistemi, utilizzava una combinazione quasi matematica dei contrappunti, si riferiva a precise regole sonore. Ma non c’era artificio nella sua musica, non c’era meccanica, non c’era una gelida premeditazione”.

  Le parole erano accorate, ma il tono era controllato, misurato, cosciente: non c’era collera o sdegno sulla sua faccia, soltanto un sorriso perenne sicuro e forte. I rimpianti potevano a stento sfiorarlo. Il passato influiva su di lui in misura del tutto casuale. La sua attenzione, il suo interesse, i suoi entusiasmi, erano tutti rivolti al futuro: le tournée, i viaggi, la musica per i film, le esecuzioni di prestigio, il contatto con un pubblico nuovo, da scoprire, una vita internazionale sempre più intensa.  Un avvenire da realizzare in fretta, al quale, malgrado la gamma di esperienze compiute, riusciva a trovare allettamenti nuovi, attrattive suadenti, suggestioni impreviste.

  Accostava il successo con avidità e non trascurava le circostanze, le combinazioni fortuite, le coincidenze che potevano procurargliene in misura sempre maggiore. Come qualcuno la più grossa casa discografica inglese, la Boose, lo invitò a figurare con una composizione inedita per orchestra, in una grossa compilation insieme a Strauss, Strawinsky, Debussy e lui non aveva niente  di pronto – i capricci, le sonate, le ouverture, le suite gli erano già state tutte commissionate – e allora per tre giorni filati si mise a lavorare isolato nella sua casa di Sperlonga, immersa nel silenzio, a pochi passi dal mare e scrisse note su note, con rabbia, con disperazione finché il poema non fu pronto, equilibrato, limato, senza retorica, senza ridondanze.

  “Un’avventura, un’ossessione” – diceva Mannino – ed era sempre pronto a riviverla.

BIANCA CORDARO

Redazione, ASCinema – Archivio Siciliano del Cinema

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