GIUSEPPE TORNATORE. DA BAGHERIA A ROMA, LA NUOVA LUCE DELLA SICILIA NEL MONDO

Consumatore instancabile di film, appassionato di fotografia, scrittore, e autore di alcuni delle pellicole più affascinanti della storia del cinema italiano.

    Nuovo Cinema Paradiso, Stanno tutti bene, Una pura formalità, La leggenda del pianista sull’oceano, Baarìa, tutte pellicole firmate da Giuseppe Tornatore – in un cinema che è visione nostalgica del passato e della gioventù, forse pessimistica, forse critica, ma profondamente segnata dall’inscindibile legame con la propria terra di appartenenza. Da Bagheria a Roma, infatti, Tornatore arriva sino all’Oscar con la Sicilia nel cuore – e sullo schermo – diventando, così, un punto di riferimento per tutti i giovani cineasti siciliani (e non).

    Proprio come il giovane Salvatore Di Vita (Salvatore Cascio) del sopracitato Nuovo Cinema Paradiso (1988), la vita di Giuseppe Tornatore, nato a Bagheria il 27 maggio 1956, è profondamente segnata dal cinema, e in particolare da quello di Federico Fellini, che per sua stessa ammissione tra le pagine de Diario Inconsapevole (2018): “Conosco i film di Fellini da quando portavo i calzoni corti”. L’incontro con il cineasta riminese – a cui poi lo stesso Tornatore chiederà, umilmente, di prendere parte a Nuovo Cinema Paradiso in un breve cammeo nei panni del proiezionista nella celebre sequenza finale – avvenne grazie a uno sfuggente, ma innamorato, sguardo al Fernando Rivoli (Alberto Sordi) de Lo sceicco bianco (1952). L’altalena, il vestito bianco dello “sceicco”, la giovane donna (Brunella Bovo) che, in fuga clandestina dal marito (Leopoldo Trieste), lo guarda con sincera ammirazione, mista a tremolante emozione; qualcosa scattò nella testa di Tornatore, non tanto sul fare cinema in sé, quanto piuttosto sulla volontà, sul “perché” fare cinema. Nel cinema di Fellini, nel ritratto malinconicamente nostalgico della provincia romagnola di Amarcord (1973) ad esempio, Tornatore vedeva un impeto, come un desiderio indomito di emergere, di un “tradire” la provincia per andare altrove – a Roma – proprio come fece il regista de La dolce vita (1960), per realizzare i propri sogni.

    Ma prima della Capitale, di Franco Cristaldi, e di Cinema Paradiso, Tornatore non era che un giovane cinefilo, figlio di Peppino Tornatore, sindacalista della CGIL, che a sedici anni metteva in scena, a teatro, opere di Luigi Pirandello e Eduardo De Filippo. Durante l’adolescenza a Bagheria, inoltre, fonda un cenacolo culturale autonomo denominato “Circolo L’incontro” assieme a Mimmo Aiello e Biagio Napoli – un autentico atto “sovversivo” volto a ribaltare l’idea di terrore e orrore propagata dall’escalation di violenza mafiosa. Con pochissimi mezzi a disposizione, film a noleggio dalle Paoline, sedie “prestate” e luoghi di fortuna, “L’incontro” riuscì a intrattenere il pubblico bagherese grazie a pellicole del calibro de La terra trema (1948) di Luchino Visconti, Vincitori e Vinti (1961) di Stanley Kramer, Salvatore Giuliano (1962) di Francesco Rosi, ma anche Zabriskie Point (1970) di Michelangelo Antonioni, Lancillotto e Ginevra (1974) di Robert Bresson e Nashville (1975) di Robert Altman. Un cinema di qualità, per un’adolescenza a caccia di opinioni sui film e di “sentiti dire”, di letture di riviste specializzate, di bobine irrintracciabili, come nel caso del sopracitato La terra trema – quasi del tutto introvabile all’epoca – che il regista nativo di Bagheria si fece spedire da un distributore romano pur di poterlo finalmente scoprire.

    I primi approcci cinematografici di Tornatore – molti anni prima de Il camorrista (1986), biopic su Raffaele Cutolo (Ben Gazzara) – sono di tipo documentaristico. L’autoalfabetizzazione al linguaggio filmico del cineasta bagherese avviene tramite documentari in Super8, come nel caso de Il carretto. Immagini di un’antica cultura (1979) e, per la redazione siciliana di Rai Tre, Incontro con Francesco Rosi (1981), Le minoranze etniche in Sicilia (1982), Diario di Guttuso (1982) e Scrittori siciliani e cinema: Verga, Pirandello, Brancati e Sciascia (1983). La svolta “cinematografica” arriva con Cento giorni a Palermo (1984), film di Giuseppe Ferrara, dove Tornatore figura come produttore, co-sceneggiatore e regista della seconda unità.

    Pochi anni più tardi arriva il primo grande punto di svolta nella carriera di Tornatore, quel Nuovo Cinema Paradiso a cui magari oggi guardiamo con nostalgia e profondo amore, ma che al tempo, non solo ebbe una lunghissima e travagliata post-produzione, ma proprio a causa del suo script fortemente autoreferenziale, divise diametralmente – e non poco – critica e pubblico. Alla fine delle riprese Franco Cristaldi – produttore di Nuovo Cinema Paradiso e capo della Cristaldifilm – ritenne fosse necessaria una vetrina di lancio visto che, durante la lavorazione andarono fuori budget (Cristaldi stesso aveva messo una buona parte di risorse personali pur di portare a casa il film) e Tornatore aveva lavorato senza compenso ma con una percentuale sugli incassi.

    Le tempistiche di post-produzione per La Biennale di Venezia erano strettissime, così, con una prima bozza di montaggio da 185 minuti – poco più di tre ore di film – e un doppiaggio incompleto, Nuovo Cinema Paradiso venne presentato all’Europacinema di Bari, dove ottenne un buon responso e un insolito premio ad hoc “Per il miglior contributo artistico nella prima parte di un film”. Alla sua prima uscita in sala, nel novembre 1988, l’epopea di Salvatore Di Vita venne licenziata da Tornatore stesso a 150 minuti, ma qualcosa sembrava non funzionare. Nuovo Cinema Paradiso divise ancora una volta critica e pubblico, ottime reazioni emotive ma pochissima presenza nelle sale. Dopo appena una settimana, e magrissimi incassi, il film venne ritirato. Tornatore, così, rieditò per la seconda volta la sua opera più personale e intima, il minutaggio scese a 125 minuti, nella speranza di rendere così il film più fruibile per il pubblico. Arrivati al 1989, mentre Cristaldi tentava di vendere il film all’estero, senza risultato, Nuovo Cinema Paradiso venne rilasciato, a marzo, in sala per la terza volta. Ennesimo clamoroso tonfo commerciale, dopo appena poche settimane il film venne ritirato dalle sale; Tornatore capì – suo malgrado – come il problema di Cinema Paradiso non fossero tanto il minutaggio o il ritmo narrativo, quanto il totale disinteresse del pubblico per la sua opera. Come in ogni sceneggiatura hollywoodiana che si rispetti però, arriva il colpo di scena. Nuovo Cinema Paradiso venne invitato a partecipare alla Berlinale prima – dove si risolse in un nulla di fatto – e al Festival di Cannes poi, dove il film fu presentato nel suo montaggio “definitivo” da 125 minuti. Il consenso, contro ogni previsione, fu unanime. Nuovo Cinema Paradiso vinse il Gran Premio speciale della Giuria, il film fu venduto in più di venti Paesi in tutto il mondo tra cui in America, dove l’oramai celebre Harvey Weinstein della Miramax se ne innamorò perdutamente. Il resto è storia, l’Oscar e il Golden Globe al Miglior film straniero nel 1990, oltre dieci miliardi di lire di incassi. Nuovo Cinema Paradiso, nel giro di due anni, passa da totale fallimento, al successo – manifesto di un sogno cinematografico fatto vita.

    Dopo il delizioso e malinconicamente romantico Stanno tutti bene (1990), con cui Tornatore porta in scena un dramma familiare dalle tinte monicelliane cucito addosso al personaggio di Matteo Scuro (Marcello Mastroianni), arriva quello che probabilmente è uno dei film più insoliti del cineasta bagherese: Una pura formalità (1994), un kammerspiel definito dallo stesso autore come “un anomalo regalo di una notte infinita, insonne”. Ci troviamo dinanzi al primo racconto in cui Tornatore si slega del tutto dal suo passato, dalla Sicilia, e da quel tipico pessimismo nostalgico, piuttosto un intreccio positivo, benevolo ed esistenzialista, dove “la storia era la base di tutto” e la storia è la condizione dell’uomo. Onoff (Gerard Depardieu) e il commissario (Roman Polanski) danno così vita a un racconto unico e irripetibile nella filmografia di Tornatore.

    Altra anomalia nella filmografia del cineasta siciliano è senza dubbio La leggenda del pianista sull’oceano (1998), che a detta dello stesso Tornatore “sembrava un film nato dall’innamoramento per il bellissimo monologo di Baricco, quasi un volersi lasciare andare a vicende e atmosfere altrui, e invece, girando mi sono reso conto che stavo respirando un clima mio, che i temi erano gli stessi di alcuni film già fatti e di altri rimasti su carta.” Un film partito quindi come un racconto intimo, quello di Novecento (Tim Roth), sulla precarietà della vita e delle scelte, finito con l’ingigantirsi esponenzialmente – quasi delle dimensioni di un colossal, di un romanzo – sulla singolarità dell’individuo nel cercare il suo posto nel mondo e sulla necessità (e l’importanza) di raccontare storie.

    Nel corso dei successivi vent’anni, la carriera di Giuseppe Tornatore è andata sempre più ad arricchirsi di pezzi di mosaico dei più variegati, da Malena (2000) a La corrispondenza (2016) passando per La sconosciuta (2006) e La migliore offerta (2013), al documentario attualmente in lavorazione su Ennio Morricone denominato Ennio: The Maestro (2020) – ma è certamente Baarìa (2009), la pellicola di maggior impatto e peso specifico, con cui l’autore torna alle origini del suo modo di fare cinema. Con Baarìa infatti, Tornatore va oltre il semplice processo creativo dello sceneggiatore, piuttosto realizza una trascrizione di una memoria nostalgica composta da “immagini e suggestioni, fatti e leggende, suoni e rumori, parole e idee, ombre e colori, progetti e delusioni, urli e mormorii, tanfi e profumi, miserie e splendori, lacrime e sorrisi”. Una ricostruzione in legno, gesso e ferro della Bagheria della sua memoria, attraverso una struttura narrativa volutamente irregolare, che punta più sulle emozioni che non su un racconto organico, un racconto di immagini e suoni, di volti e percorsi narrativi e di vita.

    Diceva Leonardo Sciascia, che “il più grande peccato della Sicilia è stato, ed è sempre, quello di non credere nelle idee. Qui, che le idee muovono il mondo non si è mai creduto”, ritenendo così, per certi versi, la Sicilia come la metafora dell’impossibilità del cambiamento che attanaglia il mondo – e alcuni uomini. Tornatore va oltre la visione di Sciascia, trovandovi un rimedio nel cinema. Il cineasta di Bagheria sceglie di combattere i pregiudizi e i codici inequivocabili di certi luoghi comuni, attraverso una visione cinematografica malinconicamente nostalgica – quasi felliniana – che racconta della Sicilia come terra romantica, sognatrice, che non vive di sola mafia e violenza come mostratoci – ad esempio – da Francis Ford Coppola nella saga de Il padrino (1972-1990); ma popolata da gente affamata di cambiamento e del cinema degli eroi di Gary Cooper, dei silenzi esistenziali di Robert Bresson, e dell’istrionismo artistico di Robert Altman.

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