ANIMA PERSA (1977). IL SURREALE DI DINO RISI

Per la seconda volta, dopo Profumo di donna (1974), Dino Risi si cimenta con successo nella trasposizione
cinematografica dei romanzi di Giovanni Arpino, affidandosi anche stavolta all’interpretazione istrionica e
magniloquente del “mattatore” Vittorio Gassman. Dopo la lunga e fruttuosa stagione nella commedia italiana, Risi sconfina su un territorio a lui poco congeniale ma si affida in questo al talento di Bernardino Zapponi per rileggere la storia di Un’anima persa, variando qualcosa a livello di sceneggiatura, l’ambientazione in primis (Venezia anziché Torino), e dando profondità e spessore drammaturgico tanto ai personaggi quanto alla vicenda narrata, calandola nel mystery più cupo.

Venezia. Nella grande dimora dei coniugi Stolz, Fabio ed Elisa (Vittorio Gassman e Catherine Deneuve), giunge ospite il giovane nipote Tino (Danilo Mattei), desideroso di frequentare un corso di pittura presso la scuola d’arte. Il ragazzo si accorge sin da subito dell’atmosfera di disagio che aleggia su quella enorme casa, parzialmente in stato di abbandono. Lo zio è infatti un uomo arcigno e severo che tratta con poco rispetto la moglie, la quale dal canto suo appare psicologicamente sottomessa e rassegnata. A turbare ulteriormente il soggiorno di Tino sono degli strani rumori provenienti dalla soffitta, un luogo che inizialmente gli viene proibito di visitare, ma che poi – grazie all’anziana governante – scopre essere la stanza segreta dove vive segregato Berth, fratello dello zio ed ex professore di Scienze. L’uomo sarebbe impazzito dopo la morte della figlia decenne di Elisa, Beba, nata dal suo primo matrimonio e a cui lui si era molto legato. Tra le reciproche accuse dei coniugi e ambigue scoperte da parte di Tino, la verità che emerge da quel vissuto familiare sarà ben diversa.

Non un film “di genere”, non un horror e nemmeno un thriller in senso stretto, quanto piuttosto una sommatoria di tutte queste cose insieme e che ha nel mistero e nella cupezza di un contesto familiare morboso la sua ragione d’essere. Quello che più colpisce di questa pellicola si estrinseca sostanzialmente nell’elemento psicologico che caratterizza i personaggi e nella descrizione visiva degli ambienti. I veri protagonisti, i due coniugi, sono ispezionati da Risi con molta cura, restituendo un risultato assai brillante grazie alle eccellenti interpretazioni di due grandi attori.

Gassman è semplicemente memorabile, titanico, quasi teatrale nella sua performance in doppia veste: quella del matto prof. Berth, che sgozza bambole, si strafoga di anguria e fa le linguacce davanti lo spioncino, e quella dell’algido e arrogante ingegner Stolz, fiero delle sue origini asburgiche, che non dorme più di tre ore a notte e non perde occasione per riprendere e umiliare la moglie, sposata solo perché “un giorno non sapevo cosa dirle e le ho detto: ti amo!”. Lei è Catherine Deneuve, bellissima anche se appare smunta e dal viso appassito, schiacciata dalla personalità del marito e spesso costretta a letto da una salute cagionevole. Trova un supporto morale nel nipote Tino, il quale ascolta impressionato le sue confidenze. L’altra grande protagonista è la brumosa Venezia, “una vecchia signora dall’alito cattivo”, come la apostrofa Gassman mentre è in barca col nipote e la MdP si sofferma sui rifiuti che galleggiano ed i muri scrostati dei vecchi palazzi. Ancor più inquietante è però l’antica dimora degli Stolz, signorile ma allo stesso tempo cupa e dall’aria cimiteriale, con zone fatiscenti e in stato di degrado, tra topi, polvere e ragnatele. E poi c’è la scaletta che conduce in soffitta, alla stanza “segreta” di Berth che il grandangolo della cinepresa esplora attraverso lo spioncino rievocando inquadrature analoghe di Hitchcock in Psycho (1960). L’atmosfera greve e misteriosa viene di tanto in tanto smorzata da siparietti più leggeri come quelli fra Tino e la sua compagna di studi Lucia, e quelli macchiettistici con il maestro d’arte durante le lezioni.

    Anima persa, pur non essendo esplicitamente un film di critica, presenta delle peculiarità che lo accostano molto al “gotico padano” di Pupi Avati, e in particolare a La casa dalle finestre che ridono (1976): relazioni morbose/incestuose, figure grottesche e loschi figuri nascosti in soffitta, nastri registrati e persino il ricorrere dell’Arte come ambiente di frequentazione. Il tutto senza tralasciare le affinità con il thriller, cosiddetto psicologico, di polanskiana matrice (la follia, il doppio, gli appartamenti inquietanti…), che rendono questo lavoro poco conosciuto di Dino Risi un piccolo gioiello da riscoprire e da apprezzare.

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