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Tag: Dino Risi

UN AMORE A ROMA (1960) DI DINO RISI

28 Novembre 2021

Roma è stata rappresentata in molti film del nostro cinema: poche volte ne è stato reso uno spaccato, interiore ed esteriore, così lucido – e niente affatto retorico – come in Un amore a Roma (1960), regia di Dino Risi, tratto dall’omonimo romanzo di Ercole Patti. Protagonista di questa vicenda è Marcello (Peter Baldwin), giovane aristocratico romano con velleità da scrittore che vive con l’anziano padre vedovo nell’avita magione.

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ANIMA PERSA (1977). IL SURREALE DI DINO RISI

20 Luglio 2021
Per la seconda volta, dopo Profumo di donna (1974), Dino Risi si cimenta con successo nella trasposizione
cinematografica dei romanzi di Giovanni Arpino, affidandosi anche stavolta all’interpretazione istrionica e
magniloquente del “mattatore” Vittorio Gassman. Dopo la lunga e fruttuosa stagione nella commedia italiana, Risi sconfina su un territorio a lui poco congeniale ma si affida in questo al talento di Bernardino Zapponi per rileggere la storia di Un’anima persa, variando qualcosa a livello di sceneggiatura, l’ambientazione in primis (Venezia anziché Torino), e dando profondità e spessore drammaturgico tanto ai personaggi quanto alla vicenda narrata, calandola nel mystery più cupo.

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L’ITALIA DEL BOOM

16 Gennaio 2021

Nuovo benessere, docili trasgressioni, denuncia politica e satira

Il tempo di mettere piede negli anni Sessanta, accelerando il passo di una 600 familiare o rischiando il freno di un’Aurelia sport super-compressa, di infilarsi nell’ingorgo del benessere diffuso e di sentirsi scheggia dell’avvenuta esplosione – parte del boom, insomma –, e il cinema è già lì che racconta, che ci racconta, meglio d’ogni altro: filmando un Paese sorpreso in quella stagione sospesa tra la povertà che è stata e il malessere che sarà. Tra “vita difficile” e “dolce vita”, alla vigilia delle scelte delicate, dei grandi derby sociali anni Sessanta: coerenza-compromesso, impegno-alterazione.

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DINO RISI, POCHI GRANDI MAESTRI

19 Settembre 2020

De Sica e Rossellini senz’altro, mentre Visconti spesso «era solo un buon arredatore. E Antonioni mi ha annoiato. Monicelli rivalutato tardi, come me».

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MILENA VUKOTIC

23 Aprile 2020

Milena Vukotic (Roma, 23 aprile 1935) è un’attrice italiana, vincitrice di un Nastro d’argento e più volte candidata al David di Donatello (1983, 1991, 2014). È nota per le sue interpretazioni in Gran bollito di Mauro Bolognini, Il fascino discreto della borghesia di Luis Buñuel, per il ruolo della moglie di Raffaello Mascetti in Amici miei di Mario Monicelli, per il ruolo di Pina Fantozzi nella saga Fantozzi di Paolo Villaggio e per il ruolo di Enrica Morelli nella serie televisiva Un medico in famiglia.

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IL FENOMENO LANDO BUZZANCA (II)

8 Marzo 2020

    Sui film del periodo comédie érotique Lando dirà in seguito: “Ne Il prete sposato ci fu, con Rossana Podestà, una collaborazione stupenda. Grazie al cielo, perché il mio ruolo era difficilissimo e quindi avevo proprio bisogno della sua comprensione, della sua amicizia.Il film incassò una follia, tre miliardi del 1970! Io ho sempre cercato e vado alla ricerca di personaggi umani, non perché non mi andasse più e non mi vada di fare il burattino ma perché non voglio confinarmici. Anche perché ii burattino ti viene a noia mentre l’uomo no. E poi è più giusto raccontare uomini che raccontare burattini… Dal ’70 al’73 se c’è stato un attore che ha incassato, questo era il sottoscritto! Con cinque film. Non è mai successo a nessun altro attore di stare contemporaneamente in tre cinema di prima visione – il Barberini, il Metropolitan e il Quirinale – con tre film diversi. E mica soltanto a Roma, ma in tutta Italia! Tre locali, tre film che facevano tutti soldi a palate. Si intitolavano Homo eroticus, Il merio maschio, Il vichingo venuto dal sud. Be’, oggi tutto questo è come se non fosse mai accaduto. I critici, anche rivedendo vecchi film tipo Divorzio all’italiana, Sedotta e abbandonata, La parmigiana, sembra si vergognino a citarmi. Eppure ho dato tanto: all’industria cinema, ai produttori, al pubblico!…”.

    Il guaio era che a suo tempo l’attore era impegnato a girare un film dietro l’altro, senza un attimo di respiro, e inevitabilmente, vista la “richiesta” del mercato, veniva a trovarsi coinvolto anche in imprese frettolose trascurabili: accadeva così che anche se un suo film su tre era degno d’attenzione, la critica, almeno in generale, non ne teneva conto alcuno, avendo ormai etichettato Lando come il protagonista di un genere commerciale di grana grossa che ripeteva quasi invariabilmente il suo personaggio, sfruttando situazioni e motivi già oltremodo sfruttati. In tal modo parecchie sono state le sottovalutazioni, quando non le feroci stroncature, di film meritevoli invece d’essere giudicati senza pregiudizi. Se, infatti, titoli quali Quando le donne persero la coda (1972), nuova farsa cavernicola, e Jus primae noctis (1972), farsa erotica medioevale, entrambi di Pasquale Festa Campanile, sono apparsi, e restano, trascurabili, All’onorevole piacciono le donne (1972) di Lucio Fulci è una scatenata satira politica che non a caso ha subìto i fulmini della censura per aver messo alla berlina un perfetto onorevole democristiano Buzzanca, tra l’altro, è truccato in modo da apparire assai somigliante all’onorevole Colombo, allora ministro – il quale, destinato dal partito, ma soprattutto dalla Curia, a diventare presidente della Repubblica, scopre d’improvviso i piaceri del sesso e in particolare è attratto dal culo femminile. Il comportamento dell’onorevole, riprovevole in più occasioni, provoca il suo temporaneo allontanamento dalla politica per ùn periodo di riposo in un monastero, ma lì egli giunge a possedere una ventina di suore e a peggiorare i propri deliri erotici, finché, minacciato perfino di soppressione e beatificazione, cioè ridotto a mummia da portare in processione, non si ravvede e torna all’ovile, ma con ben scarse prospettive di un luminoso futuro. Il regista ha detto che il film era stato proiettato al Viminale di fronte a tutti i potenti democristiani, con le forze di polizia a custodire la sala, e che, secondo alcuni presenti, Andreotti e Fanfani avevano riso moltissimo.

    Certo è che non erano tempi favorevoli a beffeggiare il partito di maggioranza relativa e i suoi rapporti con ii sesso pesantemente condizionati dalla Chiesa. Quindi, sia pure nei suoi limiti, un film che ha il coraggio dell’irriverenza e del sarcasmo contro le convenzioni e le ipocrisie, con qualche godibile trovata surreale (le suore in calze autoreggenti che ballano in modo provocante, l’albero che al posto della frutta ha solo cui femminili) e con lo sfoggio di piacevoli nudità delle attrici (Laura Antonelli e Agostina Belli come desiderabili suore giovani, Eva Czemerys, Anita Strindberg). Anche L’uccello migratore (1972) di Steno non manca di notazioni satiriche azzeccate, narrando di un professore all’antica (Buzzanca) che dalla natìa Sicilia viene trasferito in un liceo romano in piena contestazione, si trova presto in difficoltà ma viene soccorso da un’avvenente insegnante di cui si innamora (Rossana Podestà), si convince alla solidarietà con gli studenti sessantottini in rivolta e infine ne paga il prezzo con il trasferimento in una sperduta isola mediterranea. Come si vede, anche questa commedia prende di mira i problemi e gli aspetti del costume dell’epoaa, con la presenza carismatica di Buzzanca a condurre il gioco, a garanzia del successo popolare. Così come Il sindacalista (1972) di Luciano Salce, che rivisita in chiave di commedia all’italiana le lotte operaie del tempo, riuscendo assai divertente nel seguire la parabola di un sindacalista donchisciottesco (Buzzanca) che s’impegna a fondo contro il padrone di una fabbrica (Renzo Montagnani), tendendo a strafare, finché non si accorge di esserne strumentalizzato e subisce l’ira violenta dei lavoratori esasperati dopo che la fabbrica è stata venduta. Una volta tanto le donne (Paola Pitagora, Isabella Biagini e Dominique Boschero) restano sullo sfondo.

    La crisi del maschio di fronte ali’imprevedibilità caratteriale e psicologica della donna moderna è al centro dell’assai modesto La schiava io ce l’ho e tu no (7972) di Giorgio Capitani, ove il protagonista (Buzzanca), afflitto da moglie e amante (Catherine Spaak e Adriana Asti), fugge in Amazzonia e torna con una giovane schiava che corrisponde al suo ideale femminile, cioè una creatura docile, servizievole e ubbidiente in tutto. Un curioso filmetto antifemminista, purtroppo anemico di vere invenzioni. Deludente anche Io e lui (7973) di Luciano Salce, dall’omonimo romanzo di Alberto Moravia, in cui uno sceneggiatore di cinema (Buzzanca) di scarse virtù, erotomane represso, parla con il proprio membro virile (visualizzato con varie allusioni a simboli fallici, colonne, pompe di benzina, alberi, eccetera), finendo rovinato per aver seguito i suoi consigli. A margine, si possono apprezzare certi scorci sarcastici sull’ambiente del cinema romano e certi tratti di sessualità grottesco-surreale, che ovviamente non bastano a salvare il film, pressoché disertato dal pubblico. Si salva almeno in parte, invece, La Calandria (1973) di Pasquale Festa Campanile, dall’omonima commedia cinquecentesca del cardinal Bernardo Dovizi detto il Bibbiena, in cui Lidio (Buzzanca) conquista per scommessa la bella Fulvia, detta Calandria (Agostina Belli), ingenua consorte del vecchio impotente Calandro (Salvo Randone), ma poi, eccedendo in beffe sessuali, subirà una durissima punizione. Torna alla satira dell’arrivismo maschile e del gallismo Il magnate (1973) di Gianni Grimaldi, ove un ingegnere (Buzzanca) sfrutta la bellezza della moglie (Rosanna Schiaffino), lasciandola come garanzia a un conte (Jean-Pierre Cassel) per ottenere un prestito di cui ha gran bisogno, ma alla fine la donna, strumentalizzata dal primo e amata dal secondo, pianterà entrambi rivendicando la sua libertà. Tuttavia il film è un’occasione sprecata, disperdendo sia i motivi satirici che l’interessante tentativo di abbozzare i ritratti psicologici esemplari dei due uomini. Un tentativo, assai parzialmente riuscito, di satira del mondo del calcio e dei suoi eccessi, è L’arbitro (7974) di Luigi Filippo D’Amico, che narra come un arbitro siciliano (Buzzanca) troppo rigido, per fanatismo professionale trascuri la moglie, il figlio, l’amante e il lavoro, ma resti vittima delledonne e concluda la sua carriera in manicomio. Mentre II domestico (7974) dello stesso D’Amico è molto spassoso nel seguire il grottesco percorso di un cameriere per vocazione (Buzzanca) dall’8 settembre 1943 fino agli anni Settanta, al servizio prima dei tedeschi e poi degli americani, passando attraverso il cinema del neorealismo popolare alla Matarazzo e poi alle dipendenze di vari altri padroni non proprio irreprensibili, fino al carcere dove almeno potrà trovare un po’di tranquillità. In questa satira del servilismo Lando e al suo meglio in un personaggio che gli è congeniale, attorniato da Martine Brochard, Arnoldo Foà, Luciano Salce, Femi Benussi, Silvia Monti e Erika Blanc. Ancora un film tra i migliori dell’attore, Il gatto mammone (1975) di Nando Cicero, ambienta in un paesino siciliano l’odissea di un uomo (Buzzanca) che tenta invano di avere un figlio e, ossessionato dal desiderio di paternità, nonché convinto che la colpa sia della moglie (Rossana Podestà), con il consenso non entusiastico di questa ricorre infine a una bella cameriera veneta (Gloria Guida) da mettere incinta, ma senza alcun successo, finché non scopre che è lui sterile, e allora sarà la moglie a farsi mettere incinta da un aitante giovanotto, con ovvia disperazione del marito.

    Ricorrono i temi dell’onore, della gelosia delle corna e della vergogna di fronte all’opinione pubblica, insieme a quello del terrore della sterilità come ‘colpa’ che sottintende una minore virilità. Lando è molto bravo e le due attrici lo affiancano con le risorse del mestiere e dei loro fascino erotico. Quanto a Il Cav. Costante Nicosia demoniaco ovvero: Dracula in Brianza (1975) di Lucio Fulci, non solo è squilibrato tra satira e farsa (difetto, come si vede, di molti film dell’attore) ma è andato incontro a un quasi insuccesso perché, secondo il regista, uscito sugli schermi quando la fortuna di Lando era già finita. Opinione discutibile. E se invece fossero stati film come questo a determinare l’inizio del declino irreversibile di una fortuna tanto strepitosa? Ci si può anche divertire, qua e là, con le avventure di un industriale (Buzzanca), tanto ben integrato in Brianza da vergognarsi delle sue origini siciliane, che durante un viaggio in Romania si ritrova a letto con un nobile locale (John Steiner) e crede d’essere diventato vampiro, nonché gay. il poveraccio cerca colli da mordere, preferibilmente femminili, e tenta anche di guarire ricorrendo al Mago di Noto (Ciccio Ingrassia), ma senza esito alcuno, così che gli operai della sua fabbrica saranno costretti a dare il sangue per il padrone. È un tentativo di satira del capitalista vampiro che riesce più efficace nel colpire il mito del gallismo, poiché il protagonista non fa una gran figura con le donne (Sylva Koscina, Valentina Cortese, Moira Orfei, Christa Linder). Con la sguaiata farsa paesana San Pasquale Baylonne protettore delle donne (1976) di Luigi Filippo D’Amico, Lando vede confermata la crisi del suo cinema per disaffezione di pubblico. Non risolleveranno le sorti dell’attore il fragile Travolto dagli affetti familiari (1978) di Mauro Severino, in cui Lando cerca invano di farsi mantenere dalle donne (Goria Guida e Andréa Ferréol), in Prestami tua moglie (1980) di Giuliano Carnimeo, una discreta commedia degli equivoci, ove lui ripropone il personaggio di maschio latino con moderazione autoironica, tra Janet Agren, Claudine Auger e Danieia Poggi, ed è chiaro che, perduta la carica trasgressiva e dissacrante del suo tipico personaggio, a Lando non bastano più le belle donne disponibili a spogliarsi per recuperare il favore delle platee.

    In una nostra intervista del 1980 l’attore ha tracciato un bilancio della sua attività: “Sai com’è andata. Qualche buon film, come Il merlo maschio di Festa Campanile e Il prete sposato di Vicario, altri discreti e di grosso successo commerciale, altri ancora mediocri: troppi certamente, e non avrei vovuto accettarli, ma i produttori premevano, il pubblico mi richiedeva, e sono stato un po’ travolto dall’intensità del lavoro, anche se avvertivo certi segnali d’allarme, certe insoddisfazioni mie e della platea, che si sono trasformate in stanchezza. E nel 1975, dopo San Pasquale Baylonne, mi sono fermato. Ho cominciato a rifiutare le offerte perché nessuna mi piaceva davvero. E, con l’assenza dallo schermo, la crisi: perché nessun copione decente? Perché nessun regista dignitoso mi cercava?…”. E, a proposito dell’eccesso di sfruttamento da lui subìto in prodotti frettolosi e di prevedibile facile successo: “Non ho avuto possibilità di scelta. Era il mio momento è mi offrivano un certo lavoro: direi che era quasi inevitabile che ne approfittassi. Dov’erano, però, in quel momento, i registi che avrei preferito? Non sono venuti più i Germi e i Lattuada, e nemmeno i Monicelli e i Risi, che hanno fatto la fortuna di attori comici in fase di maturazione. Così ho imparato a mie spese quanto sia difficile il mestiere di attore in Italia, spesso non legato alla bravura individuale ma alle occasioni che ti consentono di affermarti in un certo modo.

    Logico, dunque, che mi sia scoraggiato e abbia cominciato a rifiutare tutto ciò che non mi piaceva. (…) Ho viaggiato. Ho constatato, con sorpresa, che sono popolare in certi paesi stranieri, soprattutto sudamericani, ma anche in Iran, a Beirut e perfino a Hong Kong, dove c’era una coda di 400 metri per entrare a vedere Il gatto mammone. Incredibile. E guarda questo ritaglio di giornale: a Managua, dopo la caduta di Somoza, un guerrigliero, parlando ai giornalista italiano, dice: “Ah, lei è del Paese di Lando Buzzanca!”. Ma certe cose me le spiego rileggendo quel che hanno scritto di me critici stimati. Leggi questo pezzo di Pietro Bianchi, a proposito de L’arbitro: scrive che appartengo alla schiera di mimi e comici d’una volta, che si basavano sulla mimica e sulla gestualità più che sulle battute. E mi paragona a Totò. E sai cosa mi ha detto di recente un tassinaro? “Lei è come Totò, non muore mai!”. Non sono io che cerco di fare paragoni. Il popolo si riconosce in certi miei personaggi e li ama. E non solo il popolo italiano…”. È vero che verso la fine degli anni Settanta si era un po’ esaurita la ventata liberatoria del nostro cinema più spregiudicato, sia di “pratiche alte” che di “pratiche basse”, dunque che i tempi erano cambiati, e con essi i gusti del pubblico, ma tanti attori hanno comunque continuato a lavorare in altri contesti. Buzzanca no. E come se si fosse interrotto bruscamente un rapporto, non solo per ii rifiuto di Lando verso le banalità che gli offrivano, ma pure per disinteresse di produttori e registi che non gli riconoscevano più le notevoli potenzialità di commediante e di attore drammatico.

    Un caso davvero singolare. Così Lando ha preferito dedicarsi al teatro, a parte qualche impegno cinematografico all’estero, qualche partecipazione a film italiani, ma non più come protagonista, e qualche impegno in programmi televisivi di vario intrattenimento.  Ha proprio ragione quando dice che la carriera di un attore è condizionata dalle occasioni che gli si offrono per maturare e per reinventarsi in ruoli davvero significativi, tali da lasciare il segno. E il nostro cinema purtroppo è ben noto per sfruttare in misura esorbitante i generi ben collaudati al botteghino, per abusare di ripetitività fino a che il pubblico non si stanca, per coinvolgere nei suoi fallimenti anche interpreti degni di rispetto, e per la mancanza di coraggio nello sperimentare opere originali, affrontando tematiche e impiegando linguaggi non convenzionali.

VITTORIO ALBANO

Redazione, Archivio Siciliano del Cinema

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