AMORE TOSSICO (1983). L’ITALIA “DROGATA” NEL RITRATTO NEOREALISTA DI CLAUDIO CALIGARI

Claudio Caligari questo film voleva farlo sul serio, e voleva realizzarlo affrontandolo apertamente, malgrado le tante difficoltà e i problemi che ne hanno rallentato la lavorazione.

Eppure lui, Claudio Caligari, prematuramente scomparso nel 2015 appena concluso il montaggio di Non essere cattivo (terzo e ultimo lavoro che idealmente chiude il suo ciclo di pellicole), non aveva certo intenzione di lasciar perdere, e il suo primo lungometraggio improntato al cinéma vérité di stampo neorealista ha visto finalmente la luce nel settembre 1983, grazie all’intercessione del regista Marco Ferreri.

  Amore tossico è ancora oggi un’opera di sconcertante intensità e spiazzante realismo sul tema della tossicodipendenza, uno dei drug-movie più crudi che siano mai stati realizzati, che probabilmente guarda al modello tedesco di Christiane F. – Noi, i ragazzi dello zoo di Berlino (1981) di soli 2 anni prima ed elevato già allo status di film di culto, ma da cui si distacca per stile e intenzioni registiche. Non vi è una vera e propria trama, non vi sono intenti moralistici né finali consolatori. Non ha la pretesa di spiegare le motivazioni più profonde del bucarsi tanto meno elargire giudizi di sorta. Non è cinema propriamente engagé, permane una certa autorialità ma non indulge alla spettacolarizzazione gratuita.
Amore tossico ci presenta la routine quotidiana di un gruppetto di tossicodipendenti del sottoproletariato romano così come realmente è, senza filtri, alla costante ricerca della dose di eroina necessaria “ppé svortà”. E “ppé svortá” si è disposti a tutto, dall’accattonaggio alla prostituzione, dallo scippo alla rapina a mano armata. Si fa ogni cosa per potersi permettere l’occorrente di una dose: un “ventino” (cioè 20.000 lire), una “spada” (la siringa) e un limone. Loro sono Cesare (Cesare Ferretti), Michela (Michela Mioni), Enzetto (Enzo Di Benedetto), Loredana (Loredana Ferrara) e Roberto (Roberto Stani) detto “Ciopper”, i protagonisti di questo docufilm interpretato da attori non professionisti, con i loro nomi reali e reali problemi di dipendenza (o con un passato di dipendenza) dall’eroina, incontrati in un SerT (Servizio per le Tossicodipendenze) grazie al sociologo Guido Blumir che assieme al regista ne ha scritto la sceneggiatura. Gli stessi ragazzi furono coinvolti nella stesura dei dialoghi, spesso venati di grottesca comicità, e nella messa a punto delle scene da girare per ottenere la massima spontaneità e aderenza al vero, in ossequio ai canoni del neorealismo e in omaggio soprattutto a Pier Paolo Pasolini che Caligari ha qui voluto tributare, soprattutto nell’ultimo drammatico segmento del film quale vera e propria citazione di Accattone (1961).

  Niente è risparmiato alla visione dello spettatore, perché Amore tossico non fa sconti, non si avvale di inutile retorica o di becera ipocrisia. È un film che parla di tossicodipendenza e questa è giusto che venga mostrata per quella che è, pur nella sua crudezza e brutalità, con dovizia di particolari dalla preparazione della siringa fino al buco ovunque possa esservi una vena accessibile: che sia sul braccio, sul polso ovvero sul collo, indugiando sui dettagli più impressionanti come l’aspirazione del sangue e “lo schizzetto” finale.

  La ricercatezza verista che un film di tal calibro richiede non può certamente prescindere da una messa in scena secca e lucida al tempo stesso, senza fare a meno di quegli sguardi spenti e inebetiti, di quelle figure che come zombi si trascinano stancamente sotto il caldo afoso tra il quartiere di Centocelle e il Lido di Ostia (ripresi senza alcuna scenografia e fotografati tal quali), di parole biascicate che, a causa del sonoro in presa diretta, a volte si fatica a comprendere, di un dialetto borgataro stretto misto alla vulgata fatta di parole in codice. Tutto questo sarebbe stato impossibile senza l’apporto determinante dei protagonisti che, una volta sul set, hanno dato vita ad un proprio alter-ego alle prese con il demone della propria dipendenza. Solo “la robba” che veniva iniettata non era droga autentica (anche se Caligari avrebbe voluto che lo fosse) ma solo simulata da sostanze neutre o da farmaci che almeno nell’aspetto davano una certa verosimiglianza.

  Amore tossico non è un film semplice, nel senso di facilmente tollerabile, proprio a causa della sua immediatezza, ma proprio per questo assolutamente apprezzabile, squisitamente oggettivo e dotato di una certa onestà intellettuale nel voler presentare uno spaccato reale dell’Italia “drogata” dei primi anni ‘80, quando il consumo di eroina (in contrapposizione alla cocaina, considerata più elitaria) e i relativi comportamenti a rischio AIDS stavano già falcidiando giovani vite allo sbando. E i protagonisti del film si rendono effettivamente conto della loro non-vita, della loro esistenza stagnante e senza prospettive ma, a parte la coppia Cesare/Michela (la quale verso il finale decide di intraprendere il percorso di disintossicazione non prima però dell’ultimo, tragico buco), nessuno sembra avere voglia di “svoltare” in bene, vivendo ciascuno nella propria cronicità, nella propria condizione ineluttabile laddove, a mali estremi, va a supplire il metadone.

  Oggi Cesare, Loredana, Ciopper ed Enzetto non ci sono più, così come Patrizia Vicinelli, la poetessa del Gruppo 63 che interpreta l’amica pittrice della combriccola (Michela Mioni, invece, è l’unica superstite del disagio vissuto e oggi sta bene), ma il loro prezioso contributo continua ad essere rammentato, così come quello di un ottimo autore, forse soltanto sfortunato, ma nel suo piccolo capace di opere coraggiose tra amare riflessioni e denuncia sociale da pugno allo stomaco.

Menzione per il particolare e straniante commento musicale di Detto Mariano, in perfetta sintonia con le immagini della pellicola.

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