RENATO GUTTUSO, L’UOMO, IL PITTORE, LO SCENOGRAFO

Protagonista della pittura neorealista italiana, esprimendosi negli artisti del Fronte Nuovo delle Arti, incontrai Renato Guttuso con una certa soggezione, lo ammetto. Sapevo che aveva operato non solo nel campo della pittura e della politica, ma subito dopo ho appreso del suo contributo al cinema come scenografo. Tra i tanti, ricorderò qui solo i murales de I sequestrati di Altona (1962) di Vittorio De Sica, le scenografie di Cadaveri eccellenti (1976) di Francesco Rosi e Kaos (1984) dei fratelli Paolo e Vittorio Taviani, di cui dipinse anche l’affisso.

Ricordo che osservai la scrittrice che aveva pranzato con lui, la sera prima, raffinata, piacevolmente mondana, intelligente, colta, arguta conversatrice, non era in grado di fornire, nemmeno agli amici, il suo numero di telefono.

La circostanza eta bizzarra, sorprendente: Guttuso non aveva rivelato a nessuno la misteriosa combinazione, non aveva voluto confidare nemmeno a lei il segreto di quelle magiche sette cifre. Se non fosse stato così fermo, così irriducibile, avrebbe corso un rischio gravissimo. A quel numero si rivolgevano infatti le brame sfrenate di troppi personaggi.

Sarebbe stato sufficiente pronunciarlo a voce alta una volta e le magiche sette cifre avrebbero fatto rapidamente il giro di amici e di conoscenti prossimi e meno prossimi, se lo sarebbero scambiati, sussurrandolo a fior di labbra, artisti e pittori, registi e musicisti, sarebbe stato profanato alla fine dalle orecchie degli sconosciuti, degli intrusi, degli estranei, dei postulanti, con il risultato che chiunque, a qualunque ora del giorno, avrebbe potuto introdursi in maniera certo simbolica e tuttavia così facile, disinvolta, sconveniente e aggressiva, nel suo atelier chiuso e silenzioso come un sacrario e nella sua casa inaccessibile e severa come una fortezza. La scrittrice era sinceramente desolata. Ma non poteva aiutarmi. Lei stessa, che pure è una delle più care, assidue, apprezzate amiche di Guttuso, se vuole comunicare con lui è costretta a mandargli un telegramma.

E Guttuso – «è tanto dolce e gentile» andava ripetendo, con convinzione soave, tormentata dall’idea che io potessi dubitarne sia pure per un momento – si fa vivo, a sua volta, con un telegramma. E lei allora ne manda un altro a lui e lui ancora un altro a lei.

Di solito, dall’allucinante, irrazionale carteggio scaturisce un incontro. Purché nel frattempo il maestro non sia stato costretto ad abbandonare la capitale, purché non lo abbiano invitato a inaugurare una mostra importante, purché non sia arrivato dall’estero un autorevole personaggio, purché non siano sopraggiunti indifferibili impegni di lavoro. Contrattempi che, riferendosi a Guttuso, non irritano gli amici, ma al contrario, li riempiono di orgoglio e di sconfinata letizia. Il problema della scrittrice era comune, del resto, all’autore di colonne sonore, frequentatore assiduo dei salotti mondani e dei circoli culturali della capitale, e al vecchio poeta di protesta. Tutti legati al maestro da profonda amicizia e tutti irrimediabilmente divisi dalla segreta combinazione, tutti colmi di un amore che assume, a volte, sfumature di devozione maniaca e tutti ugualmente solleciti nello avvolgere la sua persona nel cerchio esaltante di quelle brevi, auree parole «è tanto dolce e gentile», tutti disposti a parlare a lungo di lui, a condizione di potere assumere toni teneri, un po’ rarefatti., vagamente complici.

Confortata da quella promessa «è tanto dolce e gentile» non restava che andare a trovare Guttuso nel bel palazzo che abita in una delle zone più suggestive di Roma, un angolo silenzioso, carico di storia, un po’ in salita, chiuso da case antiche, costruite con una pietra scura e nobilissima, con il sole che batte di traverso sulle facciate e le fa brillare di una luce incerta morbida e ambigua.

Il Palazzo del Grillo incombe maestoso sulla minuscola casa in salita e lascia intravedere, attraverso il pesante portone di legno, la ricchezza dei porticati, la linea pura dei lampadari antichi da cui si sprigiona una luce romantica, un po’ fiabesca, pallida e mossa come quella dei lampioni a gas sui boulevard di Parigi, la rustica severità del pavimento acciottolato, l’invitante freschezza delle piante sempre verdi e dei rampicanti che adornano l’atrio.

Un portiere in livrea, stilizzato come un gentleman e gallonato come un ammiraglio, sorveglia costantemente I’entrata da un invisibile osservatorio ed è pronto a balzare sugli estranei. sugli sconosciuti, sui postulanti per arrestarne la presuntuosa avanzata, impiegando in questa azione lo stesso slancio morale che atri destinano alle imprese eroiche e alle missioni.

Guttuso sembrava davvero irraggiungibile: invece. Dopo pochi minuti, lungo una fila di scale, di corridoi e di grandi terrazze-giardino lucide di pioggia, venivo introdotta in una stanza vasta, rettangolare, priva di finestre, con uno straordinario soffitto a cassettoni, molto profondo, con le pareti bianche ornate di stucchi finissimi, palpitanti e vi vidi sotto le lampade. Quasi inesistente l’arredamento. Una madia settecentesca zeppa di libri, due poltrone, un tavolino basso, una tavola obliqua da disegno E dappertutto quadri. Quadri alle pareti, quadri accostati ai mobili, quadri per terra. Alcuni messi in bella evidenza, altri ammassati a caso, l’uno sull’altro. La produzione di Guttuso è vastissima, incredibile. C’è un nudo di donna di sconcertante bellezza. Le forme piene sono disegnate con tratti rapidi, vigorosi, le membra languide hanno un colore carnale, allusivo. Il suo abbandono è esplicito, ma descritto senza torbidi compiacimenti. Un po’ discosto c’è un ritratto di Kafka: la faccia scarna, allucinata è dominata dagli occhi scuri e fondi. C’è in quella faccia l’ansia dolorosa di Pavese, gli stessi contorni e un presagio di morte, di consunzione prematura. E ci sono altri ritratti. E i bozzetti e i collage. In un collage, il più personale forse, c’è Guttuso giovane, più magro e inquieto, insieme al padre, un siciliano acceso, forte, con una barba lunga e bianca come quella dei patriarchi.

Guttuso, sprofondato in una poltrona, con le guance ancora rosee di sonno e gli occhi rasserenati dal recente riposo, saluta con voce flautata, chiara, perfetta. È dolce e gentile. Tale e quale la sollecitudine degli amici aveva annunciato. Inoltre è felice. Lo turba appena il rimpianto per la casa di Velate che ha lasciaro da poco. Una villa del secolo scorso, forse ancora più antica, che lui ha reso abitabile. Ha aggiunto un ambiente nuovo sul retro, una veranda che si affaccia sui laghi e guarda il monte Rosa. In essa ha sistemato il suo studio. Produce molto a Velate. La campagna, così verde e quieta, il monte, così aperto e sicuro, sono stimolanti. «Tutti i giorni, alle otto del mattino, sono al lavoro. Il mio è un sistema operaio», afferma con un disarmante sorriso.

Una capacità produttiva complessa, affidata a una disciplina di lavoro rigorosa e premeditata: un pesante volume raccoglie i disegni che il maestri ha realizzato per le scene e i costumi della nuova, rivoluzionaria edizione della Sagra della Primavera di Stravinskij, un musicista particolarmente vicino alla sua sensibilità e con il quale ha collaborato molte volte in passato. E poi ci sono le bozze della lunga introduzione che ha scritto per un volume dedicato all’opera di Caravaggio e quelle della prefazione a uno studio su Goya, E i quadri autobiografici che ha appena iniziato a comporre: a ciclo finito saranno, ventisei, forse di più, tutti molto grandi. Ad ognuno sarà andato un momento particolare della vita di Guttuso, della sua maturazione artistica, del processo formativo della generazione alla quale appartiene.

La sua conversazione è sciolta, piacevole, musicale. Con un sottile compiacimento di se stesso si direbbe. Ma così impercettibile e così accuratamente simulato da lasciare chi lo ascolta in una condizione di dubbio, di incertezza totale. C’è in lui il distacco composto dei potenti e la loro disposizione a concedere, per un imprevedibile e non sempre logico meccanismo mentale, benevolenza e insospettata attenzione. Una posizione che probabilmente non è volontaria, che gli hanno piuttosto costruito gli altri: gli amici che gli dedicano espressioni adoranti, gli allievi che gli stanno accanto. muti e riverenti, il suo aiutante Rocco, un siciliano altissimo e scurissimo, con gli occhi lucidi, buoni e fedeli, che si preoccupa di dare consistenza reale ai suoi desideri, un attimo prima che lui abbia finito di formularli, gli sconosciuti che si scambiano il suo nome, abbassando istintivamente la voce. I giudizi che esprime sono definitivi, venati di ironia.

La Biennale di Venezia?

«Non sono competente di queste cose. È la professione di altri. Certamente molto nobile e bella. Ma io preferisco i fuochi d’artificio. Ho attraversato i saloni della Biennale come un gentiluomo. Poi, sono uscito!».

Salvador Dalì?

«Un buffone che sa fare il suo mestiere. Quando la sua figura sarà spogliata di tutto il ridicolo che si è buttato addosso, scopriremo l’artista. Dalì sa veramente cosa sia la pittura. La misura della sua arte ce la dà il ritratto della moglie Galia. Sotto il profilo umano è un clown. Ha inaugurato per sé stesso una forma di divertimento incredibile: sfruttare al massimo le sue possibilità mistificatorie, la sua capacità di giullare con uno spiccato, senso del circo equestre. Una volta venne a vedere una mia personale. Era raffreddatissimo e sternutiva continuamente, brandendo un bastone lungo e nodoso munito di un bellissimo pomo d’avorio. Quando starnutiva gli traballava la dentiera e gli cadevano i baffi posticci. Faceva sforzi tremendi per non ingoiarli e rischiava continuamente di soffocare. La mia pittura non gli piaceva, ma lui si complimentava lo stesso. Starnutiva, si complimentava con me, tornava a starnutire ed esprimeva il suo dissenso al signore che gli stava canto. Davvero la mia pittura non gli piaceva: ma lui imperterrito continuava ad elogiarmi, starnutendo e masticando i baffi posticci e mi blandiva, starnutendo e sputando fuori i denti finti. E, quando era certo che non sentissi, si lamentava e gemeva, annoiato dalla mia pittura fino a morirne. Se non ha un pubblico davanti al quale esibirsi è normale, intelligente perfino. La prima volta che parlai con lui fu in casa di un inglese al Campidoglio. Passeggiammo a lungo insieme – c’era anche Cagli con noi – e discutemmo. La sua conversazione era amabile, interessante».

La Sicilia?

«È un po’ il mio paradiso, perduto. Mia moglie non riesce a capire come mai io smani tanto per andarci e rivederla e come mai poi, appena raggiunta, smani tanto per tornare indietro. È una strana sensazione: improvvisamente provo una insofferenza rabbiosa per gli umori, il caldo, i colori. Ho bisogno di ripristinare talvolta il contatto fisico con la mia terra. Ma appena lo realizzo l’incanto si spezza. E tuttavia posso bene affermare di fare, pensare, agire in termini di netta sicilianità».

Guttuso lasciò la Sicilia nel 1931. A Bagheria, dov’è dove è nato, ha trascorso gli anni della adolescenza, ha vissuto le inquietudini della giovinezza. Il contatto con il mondo sofisticato della capitale fu aspro. A Roma visse momenti durissimi.

«Allora i giovani erano trascurati, guardati con sospetto. Oggi invece si grida facilmente al miracolo e i giovani vengono incoraggiati, ascoltati, trattati con tenerezza. E poi c’è un grandissimo interesse per le cose d’arte. La gente coltiva hobby costosi e i quadri si vendono come fossero sandwich. I ricchi si improvvisano professionisti anche se non amano la pittura, anche se non la capiscono. Il fenomeno è positivo e negativo insieme: se da una parte i veri talenti ne ricavano un beneficio effettivo, dall’altra parte sorgono con relativa facilità gruppi mercantili che propongono teorie, sotto-teorie, correnti, sottocorrenti».

La stanza preziosa, con il soffitto a cassettoni e le pareti adorne di stucchi, è calda e Guttuso parla un linguaggio suadente. Sono arrivati altri ospiti: un pittore italiano, una pittrice hawaiana, uno scultore portoricano. Si fanno intorno a Guttuso e cercano di compiacerlo. Lui non raccoglie. Sorride dolcemente e con gentilezza respinge le loro preghiere.

«È un uomo difficile – mi confida il pittore italiano – è un uomo che conta». E, sospirando appena, torna a formulare la sua preghiera. Guttuso, questa volta, non sente. «Mi piace Verdi – sta dicendo intanto – la sua chiarczza è il risultato di una lunga elaborazione creativa. Il suo lirismo, che non è mai decadente, rispecchia il meglio del carattere italiano, evitandone d’alta parte i difetti più comuni e banali: l’espressionismo e l’eccesso di napoletanismo. Lo paragono a Raffaello. Come Raffaello anche Verdi sta in equilibrio fra il sublime e il volgare».

Non ha rimpianti, non ha debolezze, non ha hobby. Ama il cinema il teatro. Ha lavorato in entrambi gli ambiti. È andato a vedere quelli del “Porcospino” senza entusiasmo, per compiacere Moravia.

È amico di Moravia. E di Moravia dice: «Non è facile avere cinquanta anni. È l’età degli equivoci: si crede di fare qualcosa di costruttivo e di vivo e invece, con ogni probabilità, ci si è già rinchiusi in se stessi o ci si è abbandonati o ci si è persi. Senza rimedio».

I suoi anni sono diversi. Lui resta soprattutto un uomo pieno di contraddizioni: generosità clamorosa e ostinato egocentrismo, gentilezza eccessiva e indifferenza, abbandoni impensati e chiuso distacco.

BIANCA CORDARO

Redazione, 20 ottobre 2019

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