NIETZSCHE, D’ANNUNZIO, PROUST E VISCONTI: LE MAGICHE SINERGIE DEL NOSTRO CINEMA

Nel 1976 Luchino Visconti diresse il suo ultimo film, L’innocente, tratto dall’omonimo romanzo di Gabriele D’Annunzio. Il film rappresenta la metamorfosi della vita coniugale di una facoltosa coppia romana di fine ottocento: Tullio, ateo e narcisista, (Giancarlo Giannini) tradisce apertamente la moglie Giuliana (Laura Antonelli), con la quale sente, però, il bisogno di condividere i risvolti di questo suo rapporto adulterino, per sublimarne la lussuria e soddisfare, così, il suo sfrenato edonismo.

    Giuliana, assai remissiva, si è invece chiusa in se stessa da quando, anni prima, la sua unica gravidanza andò male. Un giorno Tullio nota un cambiamento nella moglie: in una memorabile scena di proustiana memoria, questi viene sopraffatto dalla diversa – finalmente peccaminosa – aura di Giuliana. La mutata espressione del suo volto, la scelta di un diverso profumo, l’improvviso fiore tra i capelli, ma sopratutto la fretta di uscire di casa lo convincono che anche lei abbia un amante. In effetti Giuliana frequenta, da qualche tempo, un affascinante poeta. Questa circostanza genera nel protagonista una piacevole inaspettata sensazione: l’idea che anche lei sia capace di trasgredire ed essere, quindi, oggetto di attrazione da parte un altro uomo, fa rinascere in Tullio un fortissimo desiderio nei confronti di Giuliana. I due tornano finalmente amanti, con la volontà di recuperare il tempo perduto, sopratutto al livello sessuale: Giuliana, da comprensiva sorella dovrà tornare ad essere una passionale moglie. Questa magnifica dimensione, appena ritrovata, viene però infranta dalla scoperta che Giuliana è incinta già di qualche mese: il nascituro non è, infatti, di Tullio ma dell’amante di Giuliana, nel frattempo morto di malaria. I coniugi sono improvvisamente condannati ad accogliere questo estraneo anche perché Giuliana, nonostante le insistenze del marito, si rifiuta di abortire. Il tanto sospirato erede nasce, ma in quel momento Tullio capisce che la coppia e’ destinata a morire: non gli resta che uccidere il neonato, sfruttando la notte di Natale, mentre tutta la famiglia è in chiesa.

    Questo film dovrebbe essere ricordato più spesso: non solo per le dettagliate ricostruzioni di una Roma umbertina – assai cara a D’Annunzio – ove magnificamente si alternano salotti letterari, concerti, aste, duelli, palestre di scherma e corse alle Capanelle.

    Ma sopratutto, per il modo in cui Visconti ed i suoi sceneggiatori rielaborano il rapporto tra Tullio e la creatura appena nata: nel romanzo, infatti, il protagonista uccide il bambino per un radicale rifiuto di essere padre, in ossequio al superomismo nietzschiano che nel film viene, invece, magistralmente attenuato.

    Qui il delitto si consuma perché Tullio realizza che Giuliana ama la sua creatura come tramite per amare il suo poeta morto, mai dimenticato. Bravissima Rina Morelli, nel ruolo della madre di Tullio, prima fra tutte ad aver intravisto certe anomalie nel rapporto tra i protagonisti e l’innocente creatura.

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