MIKLÓS JANCSÓ. L’OSMOSI NEL CINEMA UNGHERESE

Miklós Jancsó, il decano più autorevole del cinema ungherese che gli deve la sua fama e il suo prestigio internazionali. Una carriera fulgida, qui in un estratto dopo la presentazione a Cannes nel 1975 di Elettra amore mio (1974).
Vogliamo parlarne cominciando dal titolo? 

    « È quello di un’opera teatrale di László Gyurkó. Si ispirava al film di Alain Resnais Hiroshima mon amour (1959) ed è anche per questo che il titolo internazionale sarà diverso. L’argomento era quello classico della tragedia greca, ma a Gyurkó, che lo aveva affrontato una decina e più di anni fa, era servito per trattare il problema dello stalinismo e dei morti ingiusti da vendicare; io, invece, insieme con Gyula Hernádi, pur partendo dagli stessi temi, li ho visti in una chiave diversa: per arrivare a dimostrare che il potere lo si può tenere solo se si hanno le mani pulite; soprattutto se lo si vuole esercitare per cambiare il mondo, per aiutare i poveri; che, a mio avviso, sono i soli scopi che giustificano l’uso del potere; e non lo trasformano in oppressione ».

Lo stile?

    « Mi è difficile parlarti del mio stile. La storia è greca, ma i climi sono astratti e l’ambientazione è ungherese: la puszta, i costumi dei nostri contadini, le uniformi. Senza datare, però, senza far epoca. E con dei riferimenti precisi al western, Oreste ad esempio, visto come un gringo, con una chitarra a tracolla, che canta una canzone del West. Poi, come sempre, in tutte le undici sequenze, teatro e balletto, in equilibrio fra dramma e commedia, fra gioco allegro e gioco serio. In movimento continuo. Tutti, protagonisti e comparse, trecento ballerini, centocinquanta cavalieri con i loro cavalli, una massa di persone che non si ferma mai ».

Perché in quasi tutti i tuoi film c’è questo movimento perenne di balletto e perché è sempre 1a musica a guidarlo?

    « Se vuoi proprio che sia sincero, ti dirò, onestamente, che non 10 so. Anni fa, Tamás Somló, che ha curato per me la fotografia de I disperati di Sandor (1965), de L’armata a cavallo (1967) e di Venti lucenti (1969), diceva che tutti quei balletti, tutti quei movimenti nei miei film erano il risultato di un mio atteggiamento personale, perché anch’io, nella vita, sono sempre in movimento, non so mai star fermo. Può darsi che sia così. Può anche darsi però che sia anche un modo di raggiungere una certa forma espressiva di spettacolo. Da qui, il balletto. Quanto alla musica, a parte il fatto che è strettamente collegata al balletto, non dimenticarti che, anche se non sono un tecnico, sono legato alla musica dai tempi della mia giovinezza, quando, cioè, fa il Trenta e il Quaranta, facevo parte del movimento populista ungherese. È stato in quegli anni che la musica mi è entrata nel sangue, fino quasi a diventarmi una ragione di vita. La musica, infatti, soprattutto le canzoni e la cultura musicale popolari, erano lo strumento principe della rivoluzione che stavamo costruendo. In quelle canzoni, in quella cultura c’era sempre la speranza di un rinnovamento; come nelle favole. E noi, era su quella speranza che facevamo leva. La nuova Ungheria, era la musica che ce la faceva sognare; e preparare ».

Vivi a Roma, lavori a Budapest, sei l’autore di cinema più celebre del tuo Paese. Quali sono i tuoi legami con la cultura ungherese?

    « La cultura ungherese, anche a causa della lingua così difficile e delle nostre antiche tradizioni di isolamento, è una cultura molto chiusa. In un certo senso questo può essere un bene perché ci aiuta a conoscerci meglio fra di noi e a non perdere i contatti con le nostre vecchie radici; però può essere anche un male perché rischia di impedirci un incontro aperto e scoperto con gli altri popoli, le altre culture; e questo sarebbe tremendamente reazionario. I nazionalismi, oggi, non possono più avere senso. Dobbiamo mirare all’universale, superando tutti i confini, tutte le diversità. La mia idea è che, nell’umanità, siamo tutti uguali, i grandi popoli e i piccoli, i ricchi e i poveri. Sono ungherese, d’accordo, sei italiano, d’accordo, alle spalle abbiamo due culture diverse, ci servono per guardarci dentro, ma per rivolgerci agli altri, per aiutarli, dobbiamo aspirare a trovare un linguaggio comune a tutti, che tutti possano capire. Sembra un’utopia, ma sta diventando una realtà ».

Quali sono; in Ungheria, i registi cui hai fatto scuola? E quali invece ti hanno influenzato?

    « Scuola non ne ho fatta a nessuno. In Ungheria tutti vanno per la loro strada e tutti la seguono in modo diverso l’uno dall’altro. Non sono un caposcuola, anche se tu, da anni, lo sostieni. Io, invece, da un autore mi son sempre sentito particolarmente influenzato, Michelangelo Antonioni. Lo ammiro dai suoi primi film, ho ammirato senza riserve il suo ultimo, Professione: reporter (1975), un film in cui si respira la grandezza, la vera grandezza. Quante volte mi son chiesto: ma da dove viene agli autori italiani, da Antonioni, a Fellini, a Visconti, a Pasolini questa loro grandezza? La risposta, certo, è la cultura italiana, è l’Italia che è la culla della cultura umana, ma c’è anche qualcosa di più profondo, quello che permette a Fellini di far poesia con i ricordi del suo borgo e a Visconti di far tragedia con cinque personaggi in una stanza… Ecco vedi, tu parli di far scuola, ma è questa grandezza, invece, che io non vedo nei miei film, che sono dei film piccoli, dei film poveri. Sì, anche dei film poveri. I miei “piani-sequenza”, ad esempio, che voi critici chiamate il mio stile (e che, comunque, mi vengono da Antonioni) all’inizio li ho inventati perché mi permettevano di girare più cose in minor tempo, e con minore spesa ».

Vada per « film poveri ». Non sono d’accordo, invece, sui « film piccoli ». Quali sono, comunque, le regole secondo le quali tu costruisci i tuoi film?

    « Li faccio sempre insieme con degli amici. Li scrivo poco a tavolino, li improvviso molto mentre li giro e li faccio interpretare da attori che, di regola, anche loro sono degli amici perché ho bisogno che si fidino di me e che dopo, fidandosi, sappiano stare fino in fondo al mio gioco, senza mutarne nessuna regola, a cominciare da quella della recitazione “recitata”; non naturale, cioè, non “come se fosse vera”; un principio che aborro perché mi sembra che snaturi il senso stesso del cinema ».

Non sei per lo stile realista, naturalmente?

    « No, il cinema è finzione, il pubblico lo sa e allora che senso ha recitar di fronte a lui la commedia della realtà “rifatta dal vero”? Quando in un mio film qualcuno muore, quella morte la deve recitare e lo spettatore è così che deve vederla senza che io debba nascondergli la finzione. Se gliela nascondessi, gli mentirei, e io non credo al cinema che mente ».

Pubblicazioni di riferimento: 7 domande a 49 registi di Gian Luigi Rondi (SEI Ed.) , Cineforum (AA. e Nrr. VV.), Filmcritica (AA. e Nrr. VV.), Positif (AA. e Nrr. VV.), Chaiers du cinéma (AA. e Nrr. VV.), Bianco e nero (AA. e Nrr. VV.).

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