MARIO BAVA. IL MAESTRO ITALIANO DEL CINEMA FANTASTICO

La traccia lasciata da Mario Bava nel cinema italiano affonda le radici nel suo talento visionario. Nato a Sanremo il 31 luglio del 1914, Bava respira gli elementi fondamentali nella composizione dell’immagine nell’atelier del padre scultore. Nella Roma cinematografica del Secondo dopoguerra, Bava diventa operatore e, quindi, direttore della fotografia in diversi film.

    Nel 1957, I vampiri, il primo film nell’horror all’italiana, con la regia di Riccardo Freda, valorizza sia la capacità che Bava possiede di muovere la macchina da presa sia quella di utilizzare il colore come elemento drammatico. Le immagini di Bava riescono anche ad esaltare il livello dei peplum. Anche se gli viene accreditata soltanto la direzione della fotografia, Bava, in realtà, ha corretto le ingenuità e le distrazioni di un paio di film dedicati alle mitologiche gesta di Ercole.

    Il vero film dì esordio di Mario Bava è La maschera del demonio (1960), che trasfigura i racconti del fantastico russo, con cui Bava brevetta il proprio marchio di qualità nel genere horror. Due medici riportano in vita la strega Asa, due secoli dopo che questa è stata giustiziata. A farne le spese è la pronipote Katia, giovane virginale che (naturalmente) le somiglia. Le due donne sono interpretate da Barbara Steele.

    Bava non si permette pause di riflessione e si dedica al genere fantasy con Le meraviglie di Aladino (1961), vicenda immersa in incantesimi sottili, e, subito dopo, con Ercole al centro della terra (1961), in cui Cristopher Lee è l’antagonista di un Ercole spavaldo, che scende fino in fondo all’Averno per salvare l’amata. Cristopher Lee appare anche in La frusta e il corpo (1963) con cui Bava torna all’horror con il nome di John Foam, sul mercato anglosassone. Il film è talmente truculento da avere guai con la censura.

    Con I tre volti della paura (1963), un film in tre episodi, Bava supera i limiti del genere, riuscendo a ottenere la tensione a partire dall’atmosfera più che dall’effetto. Il secondo episodio, I Wurdalak, è memorabile per la partecipazione di Boris Karloff, che appartiene ad una spietata stirpe di vampiri. Così come il finale è un esempio di meta-cinema, con Karloff che si rivolge al pubblico dicendo “Questo è solo un film”, mentre un carrello all’indietro svela i “segreti” del set.

    Il culmine della sua produzione Bava lo raggiunge con Operazione paura (1966) che ha una sua coerenza stilistica. Un medico tenta di risolvere l’enigma dietro morti misteriose, legate alle apparizioni del fantasma di una bambina.

    Come regista Bava è stato abile nel sapersi adeguare al limitato sforzo produttivo, anche quando è stato costretto a girare in studio, con scenografie riciclate da lavori precedenti. Eppure gli riesce ad adottare ogni volta soluzione tecniche spericolate – talvolta esagerate e ridondanti – comunque efficaci, anche senza grossi spiegamenti di mezzi.

    Negli anni Sessanta, con il suo stile incalzante ha saputo padroneggiare non solo le storie fantastiche o di fantascienza (Terrore nello spazio, 1965) ma anche avventure di ambientazione storica (Erik il Conquistatore, 1963), western (La strada per Fort Alamo, 1965) e thriller, con La ragazza che sapeva troppo (1963) e Sei donne per l’assassino (1964), che tracciano l’inizio del genere giallo italiano, osannato anche all’estero; oppure semplici parodie, come Le spie vengono dal semifreddo (1966).

Terrore nello spazio (1965) si segnalava per uno stile che sa esaltare una spettacolarità più evocata che mostrata. Comunque, alla fine dei Sessanta, invece si assecondare il suo talento visionario, Bava assesta la sua carriera su un consolidato mestiere, in un cinema popolare che smorza la sua visione personale, che si traduce nell’utilizzo sfrenato di ottiche e di zoom. Un esempio di questo stile è Diabolik (1968), incentrato sul personaggio del criminale mascherato inventato dalle sorelle Giussani, icona nell’immaginario dei cultori dei fumetti degli anni Sessanta. Le sue avventure sono fagocitate, ricevute e corrette dallo stile di Bava.

    Bava torna all’horror come in un porto sicuro: in Il rosso segno della follia (1970) racconta con ritmo incalzante un trauma infantile che è alla radice della crisi che sfocia nei raptus omicidi di un maniaco. Gli anni Settanta vedono, però, il cinema di Bava arenarsi nelle nebbie del consueto e del risaputo. Quante volte… quella notte (1970), Reazione a catena (noto anche come Ecologia del delitto, 1971), Gli orrori del castello di Norimberga (1972) con Joseph Cotten e La casa dell’esorcismo (1974) emergono da soli nell’ultima fase della produzione di Bava, ma non rendono giustizia del suo talento. Così il suo ultimo film Shock (1977), che ha tra gli interpreti Daria Nicolodi, moglie di quel Dario Argento divenuto nuovo maestro del genere.

    Mario Bava pare disinteressarsi dell’enfasi di chi riconosce in lui un maestro. Come un saggio artigiano, che è divenuto – suo malgrado – una figura di culto.
È morto nel 1980 a soli 65 anni.

MARCO MARTANA

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