LA “GENTE DI RISPETTO” DI GIUSEPPE FAVA

Ucciso dalla mafia a Catania nel 1984, dalle opere letterarie e teatrali del giornalista-scrittore Giuseppe Fava il cinema ha tratto tre film, tutti degli anni ’70.

    Dal secondo scorcio degli anni ’60 il genere cinematografico “mafiologico”, a cui soprattutto la trasposizione delle opere letterarie di Leonardo Sciascia ha dato un potente impulso (ma già Pietro Germi aveva girato nel 1949 il film di culto In nome della legge, tratto dall’ambiguo romanzo Piccola pretura di Giuseppe Guido Lo Schiavo, magistrato-scrittore che onorava la mafia), scova senza troppo penare nella ricerca, nuovi talenti letterari e subito li butta in pellicola. Polo negativo dello scanzonato filone sessuale, quello “mafiologico” raggiunge così tra gli anni sessanta-settanta il culmine dell’escalation cinematografica. Nonostante vistose ambiguità, flussi e riflussi, il tardivo riconoscimento di Cosa nostra come fenomeno internazionale (già dalla fine dell’800 i contatti con gli Stati Uniti, tra mafiosi locali e “succursali” d’oltre oceano, diventano una prassi) comincia finalmente a baluginare una più critica e meno “romantica” coscienza del fenomeno fino ad allora impensabile.

    Il cinema italiano – spesso in ritardo sui complessi fenomeni sociali del Paese, appena sfiorato dall’organizzazione criminale delle “coppole storte” compressa in una rappresentazione localistica, “paesana”, limitata perlopiù alla sola Sicilia – avvia, proprio negli anni del boom, un processo di revisione che spiana la strada all’idea di una mafia vista finalmente come intreccio d’interessi nazionali e multinazionali, fortemente legata ai tragici riferimenti dell’attualità e camaleonticamente in rapida trasformazione. Un capovolgimento di prospettiva dovuto principalmente agli scrittori isolani e segnatamente appunto a Leonardo Sciascia (il primo film tratto dallo scrittore di Regalbuto è A Ciascuno il suo, 1967, con Gian Maria Volontè, Irene Papas e Gabriele Ferzetti). Sciascia scrive di mafia e in fondo scrivendo di mafia, di quella mafia che “tracima” verso nord spostando più in alto la “linea della palma afro-siciliana”, non fa che superare – in modo abbastanza singolare, pur restando profondamente ancorato alla realtà siciliana – quel “mondo cupo, aggrondato…chiuso tutto in sé, non relazionato al mondo della storia” che resta uno dei tratti tipici di una buona parte degli scrittori isolani. (v. Sebastiano Addamo, Vittorini e la narrativa siciliana contemporanea, 1962).

    Un impianto più tradizionale, per quanto di forte matrice verista e appartenente al sempre più vantaggiosamente praticato filone dei film dedicati alle “coppole storte”, regge ancora La violenza: quinto potere (1972) regia di Florestano Vancini ricavato dal forte dramma teatrale del giornalista-scrittore di Palazzolo Acreide Giuseppe Fava (Palazzolo Acreide, Siracusa 1925 – Catania 1984) assassinato dalla mafia davanti al Teatro Stabile, quando ricopriva il ruolo di direttore del mensile I Siciliani, dopo aver ricoperto per due anni ancora quello di direttore del quotidiano Giornale del Sud, da lui stesso fondato. Eponimo della trilogia ricavata dalle opere di Fava, La violenza (tutt’oggi ancora rappresentata in teatro) è la cronaca puntuale di un processo di mafia alla fine del quale pagheranno solo alcuni povericristi. Confacente, incalzante e turgida trasposizione traboccante d’indignazione civile, il film vanta un cast strepitoso in buona parte di provenienza teatrale: Enrico Maria Salerno, Gastone Moschin, Riccardo Cucciola, Mario Adorf, Mariangela Melato, Turi Ferro, Ciccio Ingrassia (qui in un ruolo insolitamente drammatico) e Guido Leontini.

    Ancora da un romanzo di Fava, Luigi Zampa, già aedo d’un inappagato risentimento civile, ricava Gente di rispetto (1975) storia “siciliana” della giovane anticonformista e un po’ scapestrata insegnante del nord Elena Bardi (Jennifer O’Neil), spedita per punizione nel profondo sud e qui – dopo abbondanti convegni d’amore con il bel collega vigliacchetto e tenebroso (Franco Nero) – soggiogata ai fini d’una colossale speculazione edilizia da una strana figura d’uomo d’onore, l’avvocato Bellolampo (James Mason) dalla contorta psicologia. Interessante l’intervento sonoro su tre motivi scritto da Ennio Morricone (premio Oscar nel 2005), che trasforma il falso suono “off” in suono “in” (sincronismo oggettivo totale), creando ambigue e sorprendenti sovrapposizioni sul “leitmotiv di Elena“: un soave suono di mandolini diegetico (ossia dentro il film) eseguito da una piccola banda locale.

    Prodotto della cinematografia estera (Germania) è infine Palermo oder Wolfsburg (1980) (1979) regia di Werner Schroeter, Orso d’Oro a Berlino (1980), sempre da un romanzo del giornalista-scrittore, La passione di Michele (da sempre interessato anche al tema dell’emigrazione, una delle piaghe storiche della Sicilia) tentativo non troppo riuscito e con vistosi effetti di drammatizzazione di accostare la dolorosa odissea di un giovane ed ingenuo emigrante siciliano alla passione di Cristo, che chiude prematuramente la presenza di Giuseppe Fava nel cinema, ma non il coraggioso impegno civile che lo condurrà alla cruenta scomparsa, trafitto da cinque colpi di pistola alla testa la sera del 5 gennaio 1984 nella strada adesso a lui dedicata.

    Negli anni più recenti – in cui si spera sia stata definitivamente seppellita la vecchia e fuorviante iconografia mafiosa (per quanto della nuova il cinema stenti a trovare confacente rappresentazione) – la tragica scomparsa dello scrittore-giornalista è stata, per così dire, “rimpiazzata” dall’eclettico figlio Claudio, lanciatosi con successo soprattutto in politica (ex deputato europeo, deputato nazionale e regionale, ex leader della neonata formazione “Sinistra e libertà”, poi abbandonata, attualmente unico eletto nella lista, di cui è leader, “I cento passi” e Presidente della Commissione antimafia della Regione Siciliana), ma anche scrittore, saggista, drammaturgo, conduttore di laboratori di drammaturgia, sceneggiatore del “mafiologico” Cento passi (2002) di Roberto Andò, cronaca del brutale omicidio mafioso (1978) di Peppino Impastato, militante di Democrazia proletaria e fondatore a Cinisi di una radio libera dalla quale ironicamente e veementemente denunciava e fustigava la piovra mafiosa, che per tutta risposta lo massacra spegnendone nel sangue la coraggiosa voce contro.

    Ancora uno dei tanti omicidi dei “solitari” compiuti nel clima di un “crescente consociativismo (nel quale) si stava perfino affievolendo la tradizionale opposizione comunista al sistema politico-economico-mafioso… In un clima del genere i più «testardi» nella sfida aperta alla mafia restavano isolati…”, come è accaduto a Fava “stroncato dal clan dei Santapaola il 5 gennaio 1984, a Catania, nel vivo della sua solitaria campagna di stampa, sul periodico I Siciliani, contro i «cavalieri»”. (G.C. Marino, Storia della mafia, Newton & Compton, Roma, 1997).

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