LA PIOVRA (1984). ALLE ORIGINI DI UNA SERIE TV

Quando in una città della Sicilia viene ucciso il capo della squadra mobile locale, al suo posto arriva il commissario Corrado Cattani, un giovane poliziotto milanese. Cattani comincia le indagini e si lascia coinvolgere da un amore sbagliato per Titti, una giovane della Palermo-bene, misteriosa tossicomane, legata alla mafia. Titti confessa e conferma tutto ciò che Cattani aveva intuito: il collega ucciso, il commissario Marineo, era l’amante della madre di Titti ed entrambi sono stati eliminati da Cirinnà, mafioso e spacciatore di droga.

    Per Cattani inizia un periodo difficile che vede l’assassinio del giovane agente Leo, suo collaboratore, il suo matrimonio con la moglie Else frantumarsi giorno dopo giorno, fino al rapimento della figlia Paola, e lo porterà, solo temporaneamente ad arrendersi a un potere occulto, immenso,che non conosce ostacoli sul proprio cammino. La fiction che aiuta a sapere. Con un finale aperto, e consolatorio, ma non troppo. Le vicende del commissario Cattani, capo della Mobile in una cittadina siciliana, hanno appassionato un vasto pubblico, anche se a volte sfioravano l’inattendibilità; anche se, accanto a puntate di ritmo sostenuto, ce ne sono’state- altre, la quinta in particolare, in cui il rapporto sembrava procedere a strattoni, con troppe lentezze, e riposava troppo sule spalle del protagonista, Michele Placido, non sempre apparse sufficientemente solide per sostenerne il peso. A distanza di molti anni dalla conclusione della programmazione, si possono discutere qualità e difetti del film-TV di Damiano Damiani & Co. E le opinioni anche le più diverse, saranno tutte ugualmente legittime: ore e ore di televisione non possono non contenere lungaggini, inverosimiglianze, discontinuità di racconto: personaggi estremizzati come il commissario, la contessina drogata, i notabili mafiosi rischiano facilmente di apparire, a tratti, inverosimili. Salvo l’ingenuità del “mi riconosco”, o “non lo riconosco”, su La piovra può essere detto quasi tutto.

    Perfettamente naturale è anche che, ai giudizi sul film-TV, si mescolino quelli sul tema affrontato da La piovra e su come lo sceneggiatore De Concini il primo regista Damiani lo hanno affrontato. Non voler fare della pura fiction significa accettare di non essere giudicati con i soli parametri che si adoperano per la fiction. Ma siamo convinti che valeva la pena di correrlo questo rischio, che avere scelto un tema di casa nostra, un tema scottante, drammatico, non lontano né nel tempo né nello spazio, è una iniziativa che va incoraggiata. Un’opera di fantasia, nata dalla cronaca italiana di tutti i giorni, veniva restituita alla cronaca: ai fatti e agli uomini che I’avevano ispirata. Conclusa con il regolamento di conti del commissario Cattani, e con l’abbraccio alla figlia ritrovata, la vicenda immaginaria, si è passati in studio: tra magistrati, politici, uomini di cultura, poliziotti, vittime della mafia. L’impatto con la verità di storie tragiche come quella del commissario Giuliano, l’impatto con la vicenda di uomini che, ciascuno dal suo posto di lavoro, quotidianamente si confrontano con la mafia, ha certo fatto risaltare le caratteristiche di “finzione” del film-TV di Damiani. Lo ha reso, a un tratto, meno vero. Ma, per paradossale che possa sembrare, lo ha contemporaneamente reso più verosimile. E quel collegamento con il circolo Lauria di Palermo è risultato qualcosa di più e di diverso da un qualsiasi apporto al dibattito: è suonato come l’ideale suggello al lavoro di De Concini e Damiani.

    Quel dramma personale non basta a spiegare la realtà della mafia. Bisogna riconoscere che gli ingredienti per una moderna storia di mafia ci sono quasi tutti: la droga, la Sicilia, la banca, la P2, le carceri, il poliziotto coraggioso, il prete impegnato, il magistrato debole, una cospicua serie di assassinii, ma anche la corruzione strisciante e diffusa, la ribellione individuale, l’oscuro e incombente dominio del Potere. Questi ingredienti sono mescolati con altri che appartengono alle ricette di ogni film destinato al vasto pubblico: la coppia che non va, il difficile rapporto genitori-figli, il ruolo della donna e in genere gli aspetti più attuali della vita della gente comune, cui secondo gli insegnamenti dei telefilm americani e pure il poliziotto può e deve sfuggire. Ma la materia trattata è terribilmente seria e importante e dunque impone di ragionare sul “messaggio” che il mezzo televisivo ha portato nelle case di milioni di italiani. Inoltre, Damiani non può essere accusato di avere scoperto il tema della mafia, con annessi e connessi, e di avere sfruttato la moda del momento; la sua attenzione e il suo impegno hanno prodotto una sorta di filone, quasi un lungo racconto a puntate che segue la lotta tra i cosiddetti tutori dell’ordine e i criminali di stampo mafioso.

    Proprio perché non siamo di fronte ad uno dei tanti film di cassetta è necessario farci i conti, perfino da parte di chi non ha alcuna competenza, quindi alcuna pretesa, di formulare un giudizio sul valore artistico del film. Forse per la prima volta la gente comincia a prendere coscienza di un fenomeno che, non meno del terrorismo, mette in discussione la sorte della democrazia nel nostro Paese e chiama in causa valori fondamentali della convivenza civile, come hanno capito con immediatezza i giovani. Un’intera generazione che riscopre il gusto della mobilitazione e fa sentire tutta la freschezza di un nuovo modo di discutere e agire sulle grandi questioni del tempo presente, esprime ansia di conoscenza e rifiuto di ideologia, qualunque sia la provenienza. È una tremenda responsabilità, già questa, questa, per chi si appresta a raccontare cronache di mafia. E non basta cronache via via fanno emergere, perché i segnali che se ne traggono sono molteplici e spesso contraddittori. Occorre raccontare con minuziosità e attenzione ogni particolare, certo, ma occorre anche fornire un filo conduttore capace di favorire la crescita di una coscienza collettiva, critica beninteso, che a parole tutti riconosciamo essere la condizione di fondo per sconfiggere la mafia e la grande criminalità. Ora, nel film di Damiani ci sono molti elementi di attualità, ci sono intuizioni rapide e felici – in proposito solo una battuta da telespettatore: non è un po’ greve l’intreccio delle vicende sentimentali che assillano i personaggi principali? – Rimane però la sensazione che i vari pezzi siano sovrapposti l’uno all’altro e che la sola “verità” sia il dramma personale del protagonista, il commissario Cattani.

    Il quadro complessivo risulta così poco credibile e restano sullo sfondo, sbiaditi o ignorati, due fenomeni che hanno una dimensione non esclusivamente individuale e che costiuiscono, a mio parere, due importanti chiavi di lettura di ciò che accade nella realtà di ogni giorno e nella stessa storia de La piovra il sistema di potere politico-mafioso e soprattutto la lotta alla mafia. Si tratta di cose concretissime di personaggi in carne e ossa, di vicende reali da raccontare e attraverso questa narrazione tuttavia si comincerebbe a dare qualche risposta i tanti interrogativi della gente. Ad esempio, perché in Sicilia e non altrove, nell’ultimo quinquennio, c’è stata una catena di grandi delitti mafiosi che hanno determinato la eliminazione di esponenti della magistratura, della polizia, del mondo politico, della stampa, esponenti che rappresentavano punti di riferimento istituzionali nella lotta alla mafia? Perché in Sicilia, e nel Mezzogiorno in generale, gerarchie ecclesiastiche e non soltanto i parroci hanno deciso di scendere in campo contro la mafia? La piovra è ambientata nella provincia siciliana ma poteva essere ambientata, senza che cambiasse nulla nel senso complessivo del “messaggio”, a Torino e nel New Jersey; e la facile replica che la mafia e il traffico di droga hanno assunto dimensione mondiale e internazionale non dà risposta agli interrogativi. Sicché nella opinione comune si accentua quel moto pendolare, a proposito della Sicilia e dei suoi problemi, tra l’idea che la mafia è un prodotto naturale della “sicilianità” incombente e oggi pervasiva, e l’idea che ormai tutto è mafia in Italia e nel mondo. La Sicilia diventa un luogo simbolico, dove il Potere domina incontrastato e soltanto qualche vendicatore solitario, alla maniera del Far West, può opporvisi quasi sempre senza successo.

    Non so se Damiani abbia in mente simili idee, che peraltro circolano in molti ambienti politici e culturali, so che come siciliano che ha vissuto le vicende di questi anni non mi riconosco nella oleografia della Sicilia tracciata nelle sei puntate de La piovra. In particolare il ceto aristocratico, già decadente all’indomani della Seconda guerra mondiale, non esiste più e non è certo tra i suoi residui storici che si è infiltrata ed è prosperata la mafia. Ma non si può neanche riconoscere in una squallida e spregiudicata borghesia di provincia il simbolo di una degenerazione morale e sociale nella quale si avvilupperebbe la piovra della mafia e della droga. La storia reale della Sicilia, in questo trentennio, è assai più complessa e contraddittoria e non si risolve nella progressiva crisi di un ceto sociale, così: come la storia reale della mafia non si può identificare nel traffico internazionale della droga che pure oggi è l’aspetto più rilevante e pericoloso. Insomma mi sembra che la caratterizzazione dell’ambiente nel quale si muove il commissario Cattani è solo in apparenza attuale, perché i costruttori e i banchieri della provincia siciliana esprimono più l’avidità individuale che la strategia di un potere finanziario e imprenditoriale, perché la P2 appare più come un’associazione di malfattori travestiti da persone perbene che una trama politica interna a settori della Società e dello Stato, perché non si capisce qual è la sede e la forma della meditazione dei pubblici poteri al livello regionale e nazionale.

    La mafia non è un’agenzia o una serie di agenzie della violenza al servizio del Potere, né è una cultura o una mentalità diffusa; è una complessa organizzazione criminale, la cui radice e il cui cervello strategico stanno in Sicilia. Essa è divenuta in parte e tende forse a divenire integralmente un elemento stabile di un modo di governare che mira a comprimere diritti e libertà fondamentali, dalla vita alla salute al lavoro alla pace. Dicevo che manca, nel film di Damiani, la lotta alla mafia. È vero infatti che l’impulso a tale lotta, in anni lontani, è venuto soprattutto dalla rivolta di singoli uomini che hanno interpretato la propria funzione pubblica con una competenza e un coraggio inusuali in altre epoche. Ma ciò intanto è avvenuto anche e soprattutto in Sicilia, e comunque oggi la ribellione individuale ha determinato movimenti collettivi e cambiamenti profondi, tuttora in corso, in importanti apparati dello Stato, nella magistratura e nella polizia soprattutto.

    I mass media, compresa la grande stampa di informazione, non hanno affatto agevolato la conoscenza e quindi la diffusione di tali fenomeni, tuttavia si sta formando lentamente una nuova coscienza popolare che contraddice quanti ancora di recente sostengono che la forza della mafia è l’essere radicata nella cultura di massa e quanti, come Damiani, esprimono in definitiva un messaggio di solitaria disperazione. Certo, c’è ancora molta strada da fare ma per continuare a percorrerla, mi piacerebbe che si facesse un film sulla lotta alla mafia nel quale, ad esempio, si vedesse non il poliziotto che litiga con i lavoratori di un cantiere chiuso “per colpa” della legge La Torre, in una falsa contrapposizione tra un principio morale e un interesse pratico e urgente, bensì il poliziotto (o il magistrato) che parla della sua esperienza e delle sue idee insieme con i lavoratori e gli studenti che manifestano contro la mafia. Anche la storia di questa lotta è reale, ed è accaduta in Sicilia, alche la storia di questa lotta fa intendere cosa significa che la mafia è questione nazionale, e perché riguarda la vita e il futuro di tanta gente. Soprattutto dimostra che le tragedie individuali non sono inutili.

ALFREDO GALASSO

Redazione, ASCinema – Archivio Siciliano del Cinema

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