ADOLFO CELI. L’ETERNO CINICO DEL CINEMA

Le amicizie, Adolfo Celi, se le sapeva veramente scegliere. Anche nella fiction. Soltanto che Ugo Tognazzi, Duilio Del Prete, Gastone Moschin e Philippe Noiret non avevano fatto ancora i conti con l’oste, nella progettazione della zingarata alla clinica privata.

    L’oste era il primario Sassaroli, che più perfido del goliardico quartetto, li neutralizzava uno ad uno con l’elettroshock, un cappellano, e iniezioni bastevoli a stendere un rinoceronte. Quella di Amici miei (1976) è forse una fra le immagini più imprescindibili e familiari del messinese Celi (1922- 1986) indispensabile per una lettura degli estremi più rimarchevoli della sua recitazione. Da una parte abbiamo il caratterista abbonato alla cattiveria con l’esempio dell’Emilio Largo di Agente 007 – Operaziane Thunderball, uno dei super-criminali storici abbattuti da James Bond. Dall’altro tale malvagità si sacrifica in un’ironia, che concede spazio ad un neppure tanto celato umanesimo. Una ricchezza di sfumature che gli ha consentito di dissociarsi da certi standard, per arrischiarsi a divenire finalmente attore dalla vasta gamma espressiva, un corpo estraneo anche per il rilievo, peraltro davvero internazionale, ricoperto al I’interno del la nostra cinematografia.

    Imponente, brizzolato, assai avvezzo ai piaceri conviviali, di signorile austerità e compassato nei modi, anche quando è doppiato non perde un grammo della sua versatilità. La scalata alla gloria affonda le radici in un passato assai remoto. Nessuno avrebbe scommesso una lira sulla futura postazione di primo piano nell’intrattenimento di un artista, che dopo il diploma di regia all’Accademia d’Arte drammatica, si era trasferito in Brasile nel 1948, dove ha diretto, a San Paolo, il Teatro Brasileiro e l’invisibile film Pescatori (1950), spaccato sociologico sulla povertà del paese della samba. Dal 1964 in poi si afferma come pendolare della recitazione sul suolo europeo, mettendosi a disposizione di Philippe de Broca, che lo vuole per L’uomo di Rio (1964). Qui incarna il primo di una sfilza di cordiali antagonisti, disputandosi un tesoro con Jean-Paul Belmondo nei consueti panni dell’avventuriero, che deve anche tampinarsi una donna. Il fumettone di de Broca è la prima fra le co-produzioni internazionali in cui è richiesto. E Celi opera una rifinitura nella perfidia, così incisiva da contrastarla con un’ironia e amabilità, che non ha certo il timore reverenziale di lavorare con grandi registi. Il britannico Carol Reed (ll fuggiasco, Il terzo uomo) lo dirige nelle vesti di Giovanni Dei Medici, che affolla la corte vaticana del pontefice Giulio ll (Rex Harrison) opponendosi a un Michelangelo Buonarroti (Charlton Heston) in procinto di affrescare la volta impervia della Cappella Sistina e di passare il testimone all’emergente Raffaello (Tomas Milian). Resta nell’ambiente ecclesiastico anche in E venne un uomo (1965) del cervellotico Ermanno Olmi, come mentore del futuro Papa Giovanni XXXIII (Rod Steiger). Interpretazioni che poco aggiungono alla suua bravura.

    Sarà Terence Young, a valorizzarlo all’ennesima potenza col summenzionato Thunderball Operozione Tuono (1965), forse il capolavoro dell’epopea Sean Connery. Questi trova una bella gatta da pelare in Emilio Largo, miliardario con la benda sull’occhio, che oltre ad allevare pescecani in piscina, si impossessa di due testate nucleari con cui ricattare il mondo intero. Per la legge degli opposti la vittoria bondiana nella sceneggiatura, fa veleggiare professionalmente col vento in poppa la carriera del nemico, che disegna da questo momento una conventicola di cattivi problematici. Come quello preparatogli da Tinto Brass, nella fase pre-erotica, in Yonkee (1965), suo unico e per altro ottimo western, nel quale è il capobanda Concho, assai bravo ad improvvisare funamboliche prodezze con la frusta al cospetto dell’avversario Philippe Leroy e dei desperados. Un messicano auto-ironico e sguaiato, come del resto ci hanno abituato gli spaghetti western, che nulla ha da spartire con il sofisticato Lord James Brooke che nel Sandokan (1976) catodico di Sergio Sollima, da ancora noia a Leroy/Yanez, due personaggi che legano a doppio filo la loro esistenze in Malesia. La garbata perfidia di Brooke sembra clonare niente meno che quella del fleminghiano Emilio Largo. Dopo una mina vagante come l’autobiografico L’alibi (1966), diretto coi colleghi Vittorio Gassman, e Luciano Lucignani, accorata testimonianza sul sacro fuoco della recitazione, ci voleva un altro esponente della criminalità organizzata come Valmont nel delirio pop di Diabolik (1964 di un Mario Bava dai costi esorbitanti, per farlo rientrare prepotentemente nella circuitazione commerciale.

    Nella trascrizione filmica del comic nero delle sorelle Giussani, è il boss che sequestra Eva Kant/Marisa Mell e commette anche la quieta ed irrinunciabile infrazione di rubare la scena all’incolore Diabolik/John Philip Law. Con encomiabile coerenza Celi è anche il rozzo e disimpegnato gangster Don Carmelo de La mano lunga del padrino (1975) di Nardo Bonomi che cerca la rivalsa a tutti i costi sul traditore Peter Lee Lawrence, personaggio minore rispetto allo sfaccettato capomafia Don Vito Tressoldi del sublime La malo ordina (1972) di Fernando Di Leo,capace di inguaiare il pappa Mario Adorf con i bravi ragazzi del Vecchio continente. Con la baldanza del potere criminale, Tressoldi affronta disarmato il delinquente di mezza tacca Adorf, spingendolo ad ucciderlo con una dignità stupefacente, senza demoralizzarsi per l’eccidio degli accoliti, orchestrato dall’aggressore. Ed è in un altro script di Di Leo che nel 1976 Celi elabora una contro strategia per arginare la fraternizzazione con una cattiveria straripante e quasi controproducente, per anestetizzarla a più riprese.

    Uomini si nasce, poliziotti si muore (1976), parto felice della congiuntura di talenti, è un estremo excursus nel poliziottesco di Ruggero Deodato, dove recita la parte di un integerrimo commissario, che impartisce istruzioni all’irrazionale accoppiata di policemen Marc Porel e Ray Lovelock, in procinto di rispettare i criteri della squadra speciale anche contro un feroce Renato Salvatori in vena di cavare gli occhi agli informatori in una sequenza mancante da più versioni. Ma la mission impossible per ricercare un certo buonismo, si concretizza in.un’opportunità chiamata: chirurgo Sassaroli, offertagli sul piatto d’argento da Mario Monicelli col summenzionato dittico Amici miei e Amìeì miei atto secondo (1982). Eccezionale nel secondo la burla architettata da Sassaroli ai danni del vedovo Alessandro Haber al cimitero, con Celi che s’inventa seduta stante una tresca con la defunta, facendo perdere le staffe al marito, che si mette a devastare rabbiosamente il loculo. Il medico gli era riuscito bene già per registi agli antipodi come Luis Buñuel e Mario Gariazzo rispettivamente nella balzana allegoria de Il fantasma della libertà (1974) e nella struttura melodrammatica de Il venditore di polloncini (1975) per prendere sotto osservazione una zia dal viso vecchio e il corpo giovanile e Renato Cestiè malato allo stadio terminale per colpa del babbo alcolista (James Whitmore) e della madre snaturata (Marina Malfatti). Non sempre però i film sono all’altezza del suo talento.

    Ciò è verificabile quando affianca come boss di quartiere lo squinternato Paolo Villaggio nella trasferta brasiliana di Professor Kranz tedesco di Germania (1978) goffo tentativo di Luciano Salce di adattare al grande schermo il crucco macchiettistico del comico genovese. Fa invece tappezzeria, come uno degli scienziati addetti alla centrale termonucleare predisposta da Satana per gettare il mondo nelle tenebre, in Holocaust 2000 (1978) di Alberto De Martino (L’uomo puma) che lo utilizza come gregario, visto che viene surclassato dai magnifici Kirk Douglas e Romolo Valli. È un gregario anche ne L’affittacamere, e quando fa I’esilarante magistrato di Febbre da cavallo (1976,) di Steno. Ma in Cafè express (1980) di Nanny Loy ritrova la forma migliore, dove tanto per cambiare è una nemesi, seduta in uno dei tanti scompartimenti, dove lavora abusivamente Nino Manfredi come barista. Nell’opera da quattro soldi Innamorato pazzo (1981) di Castellano & Pipolo, uno dei campioni d’incassi del cinema nazional-popolare, è il sovrano che con notevole disappunto deve concedere la mano della figlia Ornella Muti al molleggiato conducente d’autobus Adriano Celentano. È un patrizio romano anche nell’esile rilettura Cenerentolo ’80 (1983) di Roberto Malenotti, dandogli così una parvenza di film, in quanto Charles Perrault deve essersi rivoltato non poco nella tomba, facendoci rimpiangere parecchio i cartoons di Walt Disney.

    L’organizzazione episodica di Signore e signori buonanotte (1976) del quintetto Nanni Loy, Luigi Magni, Mario Monicelli, Ettore Scola e Luigi Comencini, lo vede partecipare al segmento di quest’ultimo, titolato “L’ispettore Tuttunpezzo“. Qui Gassman è uno sbirro che finisce per fare il lavapiatti alla TV dei ragazzi. Indossa L’abito talare dopo Il tormento e l’estasi, anche in Monsigmore (1982) di Frank Perry, un ignobile pastrocchio che miscela l’amore fra la suora Geneviève Bujold e, il cardinale Christopher Reeve con gli intrallazzi del Vaticano.

    Un altro passo falso è Come una rosa al naso (1976) di Franco Rossi, dove ritrova Gassman, emigrante invaghito follemente della cugina Ornella Muti. Assolutamente da revisionare e rivalutare l’esperienza invece come figura mefistofelica de Le braghe del padrone (1978) del mai abbastanza stimato Flavio Mogherini, con Enrico Montesano preso fra i due fuochi del patto con Satana e la scala sociale a Torino, capitale dell’industria automobilistica. Un film che come tutti gli altri, ha dimostrato che diavolo della recitazione fosse Adolfo Celi, anche quando non era un mafioso sfaccettato e un chirurgo matacchione come Sassaroli.

FABIO ZANELLO

Redazione, ASCinema – Archivio Siciliano del Cinema

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