FEDERICO FELLINI. SONO UN PECCATORE ANCH’IO

Federico Fellini risponde in questa intervista alle accuse che una parte del pubblico, dopo l’uscita de La dolce vita, gli ha rivolto con fragore in nome della morale, dell’arte, della patria e della famiglia.

«l miei personaggi sono immobili anche nel loro frenetico girotondo: perché è la società che è immobile».

Il moralismo verbale degli italiani ha trovato il suo grande tema, dunque si parla d.e La dolce vita. Lei prevedeva, Fellini, una polemica così clamorosa?

    Gli equivoci non si prevedono: si subiscono. Io ho fatto un film e mi attendevo che fosse discusso nei suoi limiti. Ne è nato invece questo spropositato baccano. Forse è una pura coincidenza, probabilmente si cercava un pretesto per uscire, comunque, dalla noia nazionale. Intanto eccomi al centro di una disputa che in gran parte non mi riguarda. È seccante, non le pare? per il mio film, in giro, si parla di religione, di patria, di lotta di classe, argomenti seri, troppo seri per essere discussi al bar o in strada. Non vorrei che sotto il gran baccano ci fosse il vuoto.

Che cosa prova di fronte agli insulti e alle minacce di sconosciuti?

    Be’, quando uno mi sputa addosso, come a Milano, mi gira l’anima, si capisce. Altre volte cedo alla comicità della situazione. Dopo la prima, a Roma, scendo con gli amici in un night. È pieno di gente che non mi saluta, ostentatamente. «Che barba, andiamocene.», dico io. Siamo al guardaroba e un tale molto chic si presenta sbattendo i tacchi. «Scusi», dico io che devo prendere il soprabito. Lui aspetta sull’attenti. Poi mi volto e lui dice: «Il suo film è un’offesa che va lavata col sangue. Io la sfido a duello. «Hai sentito?», dico a Flaiano. Serissimo Flaiano chiede al signore chic: «un duello? Ecco, ci dica un po’, come si fanno queste cose?». «Ma va alla cuccia», brontola Mastroianni, e la faccenda finisce in ridere. Poi c’è il cosiddetto sdegno nazionale e questo non mi fa ridere. Io lo ascolto stupito. Mi ero fatto delle illusioni sul conto di una certa mentalità, la credevo meno diffusa. Che tristezza questa difesa caricaturale di valori in cui non si ha più fede.

I panni sporchi si lavano in famiglia, lei denigra l’Italia all’estero, eccetera eccetera. Che risponde?

    Per favore, non parliamo di queste miserie. Che cosa dovrei rispondere? Che una delle poche cose italiane apprezzate all’estero è proprio questo cinematografo sincero?

Finché si proiettano dei film sulla corruzione della Roma popolana nessuno protesta, ma quando si tocca la corruzione della Roma di via Veneto è un’ira di Dio. Perché? Dobbiamo dedurne che in Italia la moralità è una questione di censo?

    Non ne farei una questione così importante. La protesta non è partita da una classe, ma da un ambiente ristretto e bene individuato. Poi, allargando, si è ineluttabilmente finito nella politica, cioè in qualcosa che non so e che non voglio fare. Restando al moralismo di certo pubblico, debbo considerarlo perlomeno intermittente. In questi giorni si proietta in Italia un giornale cinematografico che documenta gli intelligenti piaceri di una lieta brigata romana. Si vedono uomini e donne sdraiati sul pavimento, gli eroi del Rugantino in fotografia sulle pareti e una giovincella nata bene che dichiara la sua ammirazione per Anthony Steel. È la dolce vita fotografata nella maniera più banale. Il pubblico ride, si diverte, non prova la minima indignazione. Se io presento le stesse cose trasfigurandole e, penso, purificandole con la mia arte, si grida allo scandalo.

Dicono: «Perché si limita a descrivere il male? Perché non suggerisce una soluzione? ».

    Io ho presentato il problema nella forma più efficace. Ma perché dovrei trovare la soluzione? Sono forse un santo o un capo partito? La soluzione la trovino gli altri, i pastori d’anime e i riformatori di società. Io sono un regista e faccio i film. Del resto La dolce vita non ha un preciso intento sociale. È una favola in chiave di ballata.

Sarà certo come dice lei, ma non, speri di essere creduto. Nessuno può credere che lei ignorasse i legami evidenti che la sua favola ha con una situazione sociale vera.

    Se le dicessi che ignoravo quei legami sarei in malafede. Ogni artista vive in una realtà che non può ignorare. A me questa realtà non piace e lo si è capito. Ma il mio film non è soltanto questo. Anche ne La dolce vita io osservo l’uomo con un’attenzione diversa e, credo, più nobile di quella puramente sociale. Scruto i misteri della sua anima, le malattie del suo spirito, vado con lui alla ricerca di una luce che non può mancare. Sono attaccato da quelli che si professano spiritualisti. È un segno della confusione polemica: si applaude o si fischia per ragioni estranee al film, si dice che è bello per far rabbia ai fascisti, si dice che è brutto per far rabbia ai comunisti. Ma non esageriamo: questo è un film di Federico Fellini e basta.

Effettivamente il suo film provoca delle reazioni estreme anche fra le persone più civili. Si è pro o contro in maniera faziosa.

    I miei film hanno sempre avuto una carica di provocazione. Lo dico senza vantarmene perché è un fatto che avviene al di fuori delle mie intenzioni. Ci sono i felliniani e gli anti-felliniani, il che sul piano artistico può anche farmi piacere. Ma qui la questione è diversa. Qui si è creata una divisione fra coloro che tentano, sia pure sbagliando, di conoscere la verità, anche una piccola verità e gli altri che per pigrizia rifiutano ogni ricerca. Il mio è soltanto un nomadismo, ma è un nomadismo fatto a occhi aperti, per conoscere la vita.

La verità affidata ai fotoreporter

Eppure qualcuno dice che è proprio la vita che manca nel suo film.I personaggi appaiono tutti in una specie di immobilità. Così come sono all’inizio così sono alla fine. È valido un racconto fatto di immobilità?

    I personaggi sono immobili perché la loro società, la nostra, è ferma in un tempo d’attesa. Essi sono fermi anche nel loro frenetico girotondo. È gente che vive di miti che non reggono più. La ricerca della verità è affidata ai fotoreporter, all’occhio di vetro di una macchina. Quest’occhio è talmente dilatato che non riesce più a vedere nella misura umana. La verità sfugge, il girotondo continua, il mostro si mangia la coda. Non c’è più silenzio, ci si stordisce con la musica, tutto il film è dominato da questa ossessione sonora. La gente ha paura del silenzio perché teme di ascoltarci i suoi rimorsi.

Lei ha creato dei personaggi che hanno la sincerità dei dannati. Marcello e i suoi amici si rinfacciano ad alta voce vizi e viltà. Ma non succede nulla. Non sarà della stessa, natura, la sincerità del film?

    Bisogna essere orbi e sordi per non vedere, per non sentire il desiderio di salvezza che pervade tutto il film. Che cosa si voleva dai miei personaggi? Che dicessero ad alta voce il loro pentimento? Chi sta per annegare non grida il suo pentimento, grida aiuto. Tutto il film è un’invocazione di aiuto. Se poi questa invocazione non verrà raccolta non è colpa mia e, ripeto, non è una questione che mi riguarda.

Nel suo film c’è un episodio che sembra indicare una condanna irreversibile. Si capisce il fallimento degli scioperati, degli ignoranti, dei viziosi. Ma perché fallisce Steiner, uomo colto, che ha la gioia di una famiglia perfetta? Dunque in questa Gomorra non c’ è salvezza per nessuno?

    L’episodio Steiner non ha una spiegazione precisa, ciascuno può interpretarlo come crede. La tragedia in casa Steiner è l’irrazionale, una meteora che piomba su Marcello e sullo spettatore. Io se fossi spettatore darei questa interpretazione di Steiner: è un uomo che non sopporta più la tensione di questa età di transizione; è un uomo che non sopporta né per sé né per i suoi figli questo tempo di attesa; è un uomo inadeguato, forse un debole. La tragedia in casa Steiner deve far sentire a Marcello e allo spettatore che si cammina sull’orlo di un abisso, che la nostra dolce vita è al confine con la catastrofe.

Il sacrilego Fellini. Ha sentito che cosa le rimproverano? Di aver girato alcune scene irrispettose in San Pietro.

    Dicono che io sia un uomo senza nervi, ma rimproveri come questo mi fanno morire di rabbia. Ma che hanno di irrispettoso quelle scene? Sono irrispettose, mi pare, solo per la diva americana che si veste da prete per visitare San Pietro e per lasciarci la sua firma.

Il coraggio è la vanità

Pare che anche i fotoreporter la accusino di avere screditato la categoria, di averli messi in cattiva luce.

    Non posso crederci. Prima di fare il film io invitai a cena i fotoreporter e li pregai di raccontarmi degli episodi veri del loro mestiere. Mi raccontarono dei fatti incredibili con cui avrei potuto fare altrettanti film. Scelsi i meno violenti. Credo di aver descritto i fotoreporter con simpatia. Lo sdegno dei filistei è una vecchia storia. Si sdegnano dei fotografi ma esigono fotografie sempre più sensazionali.

Come i fotoreporter altri personaggi reali (intellettuali, nobili, artisti) si sono prestati a una dura autocritica. Lei che tutti lo abbiano fatto coscientemente?

    Qui bisogna distinguere fra il coraggio intelligente e la vanità. Laura Betti, per esempio, ha accettato la parte perché è una ragazza coraggiosa e intelligente. Un giorno ero a pranzo con lei e con Mastroianni. I due si parlavano con un’antipatia avvincente. Gli proposi sui due piedi di portarla, pari pari, nel film. Accettarono. Altri recitarono quello che sono nella vita con la spavalderia che hanno nella vita. Infine ci furono quelli che cedettero alla vanità. Il cinematografo è una sirena a cui pochissimi resistono. Conosco delle persone di rara intelligenza che hanno capitolato di fronte a questa suggestione. Del resto la chiave di certi personaggi è in una frase di Marcello: «Lei vorrebbe che scrivessi il suo nome sul giornale». Il desiderio della pubblicità di essere qualcuno senza alcun merito.

A taluni pare che lei si sia compiaciuto nella descrizione di questi tristi esemplari di umanità. La accusano di gusti decadenti, il vizio de La dolce vita, dicono, è alessandrino, intriso di falsa letteratura.

    Accetto la discussione sul piano dell’arte. Io credo nella mia, padroni gli altri di crederci meno o niente. Ma mi oppongo a coloro che usano questa discussione per arrivare alla condanna morale. Io contesto categoricamente che la mia contemplazione del vizio sia compiaciuta. È un’accusa assurda in un Paese che ha sopportato,  ammirato e custodito come il più bel prodotto nazionale l’immoralità idiota, banale, senza la minima giustificazione delle varie Susanna tutta panna. Io non tollero che i retori delle maggiorate fisiche si indignino. E mi dispiace sinceramente che ci sia molta, troppa gente pronta ad applaudire le volgarità da caserma e poi a condannare quello che è soltanto un discorso sincero.

È vero che la TV le ha rifiutato ospitalità nella rubrica che presenta nuovi film?

    È vero. Io avevo chiesto di parlare del mio film. Volevo chiarire gli equivoci, volevo riportare la polemica nei giusti termini. Il direttore della rubrica mi ha rifiutato la parola. Per la nostra TV una critica ecclesiastica equivale a un veto.

Eppure si dice che il cardinale Siri abbia approvato il film. Gli stessi critici cinematografici cattolici hanno espresso pareri positivi. Come si spiega una tale contraddizione in campo cattolico?

    Io non so perché alcuni cattolici condannino il mio film. Ma so perché alcuni lo approvano. Essi lo approvano perché è un film cattolico. Ha ragione Pasolini quando dice che io osservo i miei personaggi “con amore”. Ma sarebbe più esatto dire che li osservo con pietà cristiana.

Pensa che la gente lo capisca?

    Il film sta ottenendo un successo di pubblico abnorme. La gente corre a vederlo credendo di trovarci chissà cosa. Alcuni, ciò che non trovano lo inventano. L’altro giorno in un bar c’era un tale che diceva: «Hai visto come si scambiano le mogli nel film?». E un altro: «Sì, ma quella scena d’amore in chiesa è esagerata». Nel film non c’è nessuno scambio di moglie e non ci sono scene sacrileghe. È andata così. Temo che molti vedano ne La dolce vita ciò che vogliono vederci. Forse ci sarà un esame più meditato nelle seconde visioni.

Vedo che la gente la riconosce e che la osserva. Le dà piacere o fastidio questa popolarità?

    Siamo sinceri, sono cose che fanno piacere. Ma qui nel Nord è diverso da Roma. A Roma ci sono degli sconosciuti che mi chiamano per nome, qui si accontentano di osservarmi con la coda dell’occhio. Il diavolo, sembra che pensino, non è poi così brutto, a vederlo.

Conosce già qualche giudizio straniero sul suo film?

    Tennessee Williams ne è entusiasta. In genere i commenti degli stranieri che abitano a Roma sono favorevoli. Ii cinema è uno strano mestiere. Uno fa un opera amara, mettendoci il meglio di sé, e poi magari ottiene l’effetto di aumentare il turismo. E piantiamola con questa Dolce vita. Su, andiamo a berci un aperitivo.

GIORGIO BOCCA

ASCinema – Archivio Siciliano del Cinema

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