CONFESSIONE DI UN COMMISSARIO DI POLIZIA AL PROCURATORE DELLA REPUBBLICA (1971)

Il commissario di polizia Giacomo Bonavia (Martin Balsam) e il Sostituto Procuratore della Repubblica, Traini (Franco Nero) , sono impegnati, a Palermo, nella lotta contro la mafia e la criminalità. Mentre il primo, esasperato da dieci anni di insuccessi, si è ormai convinto dell’impossibilità di combattere la delinquenza organizzata siciliana secondo la prassi normale, il secondo, giovane e idealista, vede nella legge uno strumento inflessibile e non suscettibile di adattamenti a particolari situazioni.

    Deciso a punire a tutti i costi un potente capomafia, Ferdinando Lomunno (Luciano Catenacci), (che avvalendosi dell’amicizia di influenti personaggi politici è sempre riuscito a sottrarsi alla giusta condanna), Bonavia, dopo aver tentato inutilmente di farlo incriminare, provvede egli stesso ad eliminarlo. Tradotto in carcere, l’ex commissario è misteriosamente accoltellato a morte, mentre una preziosa testimone, Serena, che avrebbe potuto fornire elementi determinanti ai fini dell’inchiesta sulla mafia viene soppressa. È a questo punto che il Sostituto Procuratore Traini, il quale si era sempre opposto ai metodi poco ortodossi attuati da Bonavia, si rende conto di essere praticamente solo e di disporre di mezzi inadeguati per colpire un’organizzazione criminale ai cui vertici sono personalità potenti e insospettabili, probabilmente alcuni dei suoi stessi superiori.

    Quando faceva il pittore a Milano, nell’immediato dopoguerra, Damiano Damiani stupiva gli amici recitando a memoria il dialogo di Ombre rosse. La passione giovanile per il film americano ha in seguito guidato il regista verso un cinema squadrato, grintoso, aderente alla realtà; e sotto questo profilo Confessione è forse la sua migliore riuscita. Nella vena del racconto mafioso (un genere codificato negli scritti di Leonardo Sciascia, di cui Damiani ha illustrato sullo schermo Il giorno della civetta) s’inserisce la dimensione psicologica de Indagine su un cittadino al di sopra di ogni sospetto di Petri. Qui la vicenda è quella di un commissario integerrimo, che non crede più nella giustizia e combatte contro la malavita una guerra personale, e di un giovane Procuratore tutto d’un pezzo, che ritiene di poter poter sanare molte cose applicando le leggi esistenti: da una parte un guerrigliero, dall’altra un riformista. Si potrebbe obiettare qualcosa sulla scarsa verosimiglianza, dal punto di vista del costume italiano, dei due protagonisti in un Paese dov’è più facile riscontare colpevoli tolleranze piuttosto che fanatismi. Ma la contrapposizione drammatica del bravissimo Martin Balsam e del volonteroso Franco Nero funziona a dovere in un contesto, coraggiosamente smascherato, di turpi connivenze fra affarismo, politica e criminalità: ed è come vedere uno di quei film hollywoodiani degli anni Cinquanta, duri e simpatici, ispirati all’inchiesta del senatore Estes Kefauver (1971). È chiaro che il regista, preoccupato di rendere evidente un certo quadro di obiettiva difficoltà per la legge dello Stato a farsi valere, ha volutamente forzato i toni dell’epilogo, inducendo quasi lo spettatore a simpatizzare per il delitto del commissario che in realtà non costituisce una soluzione ed è anzi una resa disperata allo schema etico imposto dalla mafia, secondo il quale i conti si regolano direttamente, al di fuori dei tribunali.

    Comunque, la duplice conclusione, tragica e ambigua, dovrebbe servire a non chiudere il problema nella mente dello spettatore, ma a farlo discutere, sicché la sostanza etica che si dovrebbe trarre da questa trama di lutti va al di là del film e si estende al necessario dibattito successivo. È merito di Damiani l’averci spiegato con metodo la tecnica di sopraffazione, spesso assai sottile, di cui la nuova mafia urbana si serve e di aver ancora una volta, tramite il cinema, invitato il cittadino a ribellarsi al sopruso e a schierarsi con la giustizia.

    Un “giallo sociale” di buon mestiere lubrificato a dovere negli snodi drammatici e spettacolari e con in più un coraggioso appello a lottare per un migliore futuro della Sicilia, con un ulteriore innesto con Le mani sulla città di Francesco Rosi, sul tronco del cinema dedicato alla mafia che grazie anche a Il giorno della civetta (1968) e La moglie più bella (1970). Ciò ebbe in Damiani uno dei suoi alfieri più volenterosi.

    Era il tempo dei “gialli” sostanzialmente cosmopoliti, dove i dati caratteristici del costume locale e della psicologia venivano assorbiti nel meccanismo dell’intreccio e dei colpi di scena. La Confessione di Damiani conferma in questo senso l’estrema difficoltà di un film sulla mafia che sappia scrollarsi di dosso i due convenzionalismi del cinema sui gangster e del cinema folkloristico. Se tuttavia l’opera si distingue da molte altre consimili venuteci soprattutto da oltreoceano è per l’idea contenuta nel personaggio Bonavia, parente stretto del cittadino al di sopra di ogni sospetto di Petri, come s’è detto.

    La sua sfiducia nella potenza della legge dello Stato è il risultato di una nevrosi da cui chiunque ha in mano una porzione di potere deve guardarsi se non vuole, per troppo amore di giustizia, compiere delitti ancora più gravi di quelli dei criminali di professione. Attraverso il caso Bonavia, raccontato con uno stile serrato e fluido e momenti agghiaccianti, il film raggiunge quindi pregevoli esiti civili, che compensano l’artificiosità della struttura e di certi comportamenti.

    Ottimi gli interpreti, primo fra tutti Martin Balsam per risolutezza e precisione di gesti. Franco Nero, nella parte del giudice, si scalda strada facendo, e Claudio Gora dà un ben calibrato risalto al vecchio magistrato, ma non sono da meno gli attori di sfondo, scelti fra caratteristi di faccia grintosa e patibolare. Unica donna Marilù Tolo, spaurita a puntino prima di finire murata nel cemento.

 

RENATO RIGA

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