ANTONIO SABÀTO, UN ATTORE DEL GENERE

Antonio Sabàto nasce a Montelepre, Palermo, il 2 aprile 1943. Il suo esordio al cinema avviene su un set diretto da Vittorio De Sica, Le streghe (1967), a fianco a Silvana Mangano nelle scene oniriche. Subito dopo con John Frankenheimer, nel 1966, in Grand Prix. È associato spesso ai generi cinematografici del western e del poliziesco, ed in più di vent’anni di carriera cinematografica espressa in Italia prende parte a circa quaranta film. Nel 1984 si trasferisce negli Stati Uniti, a Los Angeles, dove risiede a tutt’oggi, dedicandosi alla pittura e alla beneficenza, oltreché a qualche ruolo saltuario in TV. È il padre di Antonio Sabàto Jr., anche lui attore, con una carriera “ponte” che lo ha visto attivo negli USA (soprattutto) e in Italia.

Antonio, ci dici chi era Antonio Sabàto da ragazzino e cosa facevi prima di fare cinema?

    Ho dei bei ricordi che conservo gelosamente. Sono cresciuto in una famiglia dalle umili risorse ma con un senso dell’unità molto spiccato, motivo per il quale raramente ho avvertito la sensazione del “bisogno”. La mia carriera scolastica, tuttavia, non è stata delle migliori, per cui presto ho avvertito la necessità di lavorare e non oziare. Lavori manuali e umili, ma mi hanno temprato e costruito un carattere tenace e mai arrendevole.

A che età hai lasciato Montelepre? In quali altri posti hai vissuto e per quanto tempo?

    Ho fatto la spola Montelepre-Palermo sin da adolescente. Palermo era il punto di riferimento urbano essenziale per qualsiasi aspetto. Ed è a Palermo che ho cominciato a muovere i primi passi per mettermi in evidenza lasciando le mie fotografie ad agenti dello spettacolo. Fu lì che cominciai a risiedere, e la considero la mia prima tappa professionale dal punto di vista logistico.

Il primo film in cui risulti accreditato è Lo scandalo (1966) di Anna Gobbi, accanto a  Philippe Leroy e  Anouk Aimée. Che ricordi ti evoca?

  La mia partecipazione fu fulminea e molto breve, ma mi servì per svezzarmi. Funse da battesimo col mondo cinematografico che sognavo già da pre-adolescente.

Nel successivo Grand Prix (1966), film pluripremiato inclusi tre Oscar e una nomination del Golden Globe per te (Most Promising Newcomer – Male), interpreti Nino Barlini. Che personaggio era? Che rapporti hai sviluppato con gli altri membri di un cast così ricco?

    Vinsi un premio importante per questo film, come miglior attore debuttante. Era un ruolo un po’ maledetto da sbruffone ma molto in gamba al volante. Io subentrai a Jean-Paul Belmondo che era impegnato in altri due set. Anche Newman, appassionato di corse automobilistiche, venne raggiunto da un invito a partecipare, ma rifiutò perché impegnato. Sul set nacque una bella amicizia con Françoise Hardy, ma toccai con mano l’ambiente cinematografico delle grandi produzioni cinematografiche, e conobbi grandi nomi a cui mi ispiravo, come Yves Montand e Adolfo Celi.

Un anno dopo torni in Italia per partecipare, nel ruolo di Miguel, in Odio per odio (1967) diretto da Domenico Paolella…

    Anche qui, il mio ruolo è un po’ maledetto. Interpretavo un giovane messicano cercatore d’oro dai risultati discutibili e col sogno di diventare uno scultore, ma finisce in un giro illegale che lo porterà in galera.

Sarai insieme a nomi del calibro di Lee Van Cleef, Bud Spencer, Gordon Mitchell e Lionel Stander nel tuo secondo western Al di là della legge (1968) di Giorgio Stegani. Quali flashback nella tua memoria?

    Era un gran gruppo, un cast di grossi calibri in quei tempi. Ricordo che imparai tantissimo dal punto di vista professionale ed umano, soprattutto con Bud Spencer e Lee Van Cleef a cui rimasi legato da un’amicizia. Lee era una persona molto dolce nella vita, al contrario di come appariva nei film.

Lo stesso anno ti chiamerà Roger Vadim per Barbarella (1968), in cui sarai Jean-Paul…

    Sì, certo. Fu un piccolo ruolo del quale non vi è traccia nei documenti di produzione. Mi servì per arricchire il mio bagaglio di esperienze, ma non ebbi contatti significativi con Vadim.

Eriprando Visconti, nipote del grande Luchino, ti vuole accanto a Anne Heywood ne La monaca di Monza (1969). Come si svolse la lavorazione del film?

    Vestivo il ruolo di Giampaolo, innamorato di Virginia, interpretata da Anne Heywood, attrice di cui conservo un ricordo indelebile. Ricordo che durante le pause non riusciva a sostenere una conversazione senza sorridere ed essere disponibile con tutti, anche col regista, notoriamente dall’atteggiamento nobile e distaccato. Lo chiamavo “Prandino”, soffriva di epilessia e anche sul set era molto condizionato da ciò, ma, tuttavia, dirigeva con abilità.

Due volte Giuda (1969) di Giorgio Stegani ti vede accanto a Klaus Kinski. Che tipo di attore e persona era, secondo la tua opinione?

    Ti dirò, lo evitavo perché la sua fama di uomo nevrotico e aggressivo lo precedette sul set, ed essendo anch’io una testa calda evitavo qualsiasi contatto extra set. Tuttavia, fui smentito dai fatti: ho avuto, infatti, modo di dialogare con lui almeno in un paio di circostanze e si mostrò molto affabile. Ma litigammo sul set da lì a poco, stava per tranciarmi con una bottiglia rotta. Volevo “strozzarlo” dopo.

Debutti nelle commedia sexy Certo, certissimo, anzi… probabile (1969) di Marcello Fondato e Love Maker – L’uomo per fare l’amore (1969) di Ugo Liberatore. Diventi espressamente il prototipo di maschio siculo inteso in chiave erotica. Che effetto ti ha fatto essere visto attraverso questa “lente”?

    La mia sicilianità mi ha sempre accompagnato, anzi, è stato l’elemento in più che mi ha consentito di adattarmi in un certo tipo di ruolo. La commedia sexy andava per la maggiore agli inizi degli anni ’70 e ricevetti molte proposte, ma non volli seguire la scia di quel genere, non mi ci sentivo tagliato. Trovo fondamentale vestire i panni di ruoli in cui ci metto del “mio”.

L’anno successivo, il 1970, ti vede protagonista in E venne il giorno dei limoni neri (1970), accanto a Florinda Bolkan e Silvano Tranquilli. Il set è in gran parte la tua Palermo, in cui ritorni dopo qualche anno. Cosa hai provato emotivamente? Quali le interazioni con i membri del cast e la regia?

    Mi sentivo a casa mia, talvolta straripavo permettendomi di dare consigli alla produzione, in quanto conoscitore del territorio. Oggi, ripensandoci, rido di me stesso. Lavorare con la Bolkan e con Tranquilli fu un privilegio per me. Ovviamente, facevo continuamente gli onori di casa, soprattutto a Mondello…

Dopo l’esordio nel genere poliziesco, arriva la tua prima escursione nel thriller ne L’uomo dagli occhi di ghiaccio (1971). Ci parli della tua opinione sul film, su Barbara Bouchet e Corrado Gaipa. Di quest’ultimo bravo attore si hanno pochissime informazioni…

    Alberto De Martino diresse il film in modo impeccabile e credo che ne sia venuto fuori un buon prodotto. La troupe si spostò negli USA per girare, e stavolta ebbi anche modo di vivere esperienze extra cinematografiche visitando il territorio e conoscendo molta gente interessante. Forse da qui cominciò la mia attrazione per gli Stati Uniti. Anche attraverso questa esperienza cominciai a maturare l’ipotesi di un mio trasferimento con la famiglia a seguito. Circa Corrado Gaipa, era un attore formidabile, dotato di uno stile sopraffino e eclettico, grande persona e bravissimo doppiatore, non solo attore. Tuttavia tratteneva spesso il sorriso ed era piuttosto schivo.

Sette orchidee macchiate di rosso (1972) di Umberto Lenzi è il giallo successivo. Che tipo è Umberto Lenzi?

    Lenzi era molto professionale e certosino. preparava tutto nei minimi dettagli ed aveva la chiave per risolvere tutti gli imprevisti sul set. Non tollerava l’approssimazione. Ebbi un piccolo alterco con lui per il mio abbandono prematuro del set un giorno che dovevo tornare a Palermo. Un toscanaccio vs. un siciliano verace come me, capirai… Ma chiarimmo subito. Grande stima per lui.

Torni nella tua Palermo per lavorare ne I familiari delle vittime non saranno avvertiti (1972), sotto la direzione di Alberto Martino.

    Nei titoli di testa faccio un percorso in motocicletta, dal quartiere Danisinni, attraverso il Foro Italico e La Cala, fino sul Monte Pellegrino. Una sequenza splendida. La rievocazione più bella che ricordo di quel film, girato tra Palermo e Milano. Be’, ogni occasione era buona per rivedere i miei familiari, i vecchi amici e per andare a mangiare il pesce di Mondello, luogo a cui sono legato da numerosissimi ricordi adolescenziali. Ma mi divertii di più nell’altro film girato a Palermo: E venne il giorno dei limoni neri (1970), di Bazzoni; partecipai alla stesura della sceneggiatura ed in realtà raccontai ciò che poi è realtà circa l’affiliazione alla mafia.

Successivamente girerai una serie di polizieschi all’italiana, prevalentemente, tra Milano e dintorni e Roma…

    Questi film hanno aumentato moltissimo la mia notorietà e rimangono delle colonne portanti del  cinema degli anni ’70, tant’è che vengono considerati fonti d’ispirazione per autori internazionali; primo su tutti Quentin Tarantino. Anni fa ho avuto diversi contatti con Tarantino qui negli USA. Lui è molto generoso nelle valutazioni professionali che mi rivolge, e gliene sono grato. Quel tipo di cinema, anche se lontano dalle grandi produzioni e dal grande “impegno”, rifletteva l’Italia di quegli anni, che, guarda caso, è perfettamente sovrapponibile alla società americana, visti i consensi nelle riproposizioni tarantiniane, Fu un periodo d’oro, con un incanto che non credo tornerà mai.

Credi che questi ruoli, nel genere poliziesco all’italiana, ti fossero confacenti per inclinazione naturale, o, magari per possedere le physique du rôle?

    Direi entrambi. Ricordo che diversi miei familiari mi dissero che anche nella vita assumevo le stesse espressioni, e non stavo recitando. Direi che mi calzavano come una scarpa adatta al mio piede.

Quale tra questi film ti è rimasto di più nel cuore, e con quale regista, invece, ti sei trovato meglio?

    Un film che amo particolarmente più di altri non esiste. Sono fiero dell’impegno che ho messo in tutti, ignorando d’esservi riuscito sempre. Ma c’ho provato. Andavo d’accordo con tutti. Chiudevo la mia partecipazione ai set sempre in perfetta armonia con tutti.

Anche Mario Merola era molto attivo nel genere, e lavorò al tuo fianco. Quali i rapporti intercorsi tra voi?

    Era un uomo buono e molto all’antica; un po’ troppo centrato su sé, geloso che nei film fatti insieme emergessi più di lui, ma con un cuore grande. Nei film ci scontrammo spesso, così come accadde con Biagio Pelligra. Lui nella vita era esattamente come i film lo descrivono, nel senso più nobile della definizione.

Hai mai rifiutato un film o un ruolo?

    Sì, è successo diverse volte, ma esclusivamente per sovrapposizione d’impegni, mai per altre ragioni. Questo accadeva prima che il cinema mi “accantonasse”.

Dopo una breve serie di action movies nei primi anni ’80, la tua attività professionale segna un paio di pause prolungate. Cinematograficamente, oggi quali sono i tuoi progetti?

    Ho voluto dedicarmi alla famiglia e immaginavo il proseguo della mia vita negli Stati Uniti, motivo per il quale ho cominciato a programmare una vita lì.

Potresti parlarci del tuo attuale impegno rivolto al sociale e alla pittura?

    Certo che sì! Sono i due ambiti in cui sono particolarmente attivo con partecipazioni volte all’aiuto dei bambini ammalati seriamente, faccio parte de The Starving Kids Before They Die, e organizzo almeno due mostre di pittura l’anno, dove espongo i miei dipinti, con un certo consenso.

Qual è l’intimo e profondo rapporto con Palermo e la Sicilia? Da quanti anni manca, e che posto visiterebbe per primo?

    Lo stesso che passa tra ogni uomo e la madre. Mi manca ogni giorno, ma la nostalgia è attutita dalla consapevolezza d’aver fatto una scelta di cambiamento insieme agli affetti. Manco da diversi anni ma mi ripropongo di tornarci insieme a mio figlio Antonio Jr. E poi, la comunità di italiani californiana è molto ben nutrita e fervida.

Ti ringraziamo per l’intervista esclusiva che ha voluto concederci, augurandoci di vederla molto presto a Palermo.

  Il privilegio e il piacere sono stati miei.

 

ANTONIO LA TORRE GIORDANO

Intervista concessa nel settembre del 2013
Redazione, ASCinema – Archivio Siciliano del Cinema

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