TOBY DAMMIT. I TRE PASSI NEL DELIRIO SECONDO FELLINI

Un sinistro richiamo, un’inquietante attrazione, l’irresistibile voglia di autodistruzione. E infine, la corsa sfrenata in auto verso il compimento del proprio destino. Terzo ed ultimo episodio della pellicola collettiva Tre passi nel delirio ispirata ai racconti di Edgar Allan Poe, Toby Dammit – che da il nome al suo protagonista – è un prodotto felliniano DOC che va a chiuderne magistralmente la visione.


    Federico Fellini trasfonde infatti su pellicola le suggestioni orrorifiche del racconto Mai scommettere la testa col diavolo del celebre scrittore di Boston e, coadiuvato da Bernardino Zapponi alla sceneggiatura, mette in scena un distillato purissimo di grottesco e surreale in cui ben si amalgamano elementi macabri e del fantastico, con un finale da vero film dell’orrore e una memorabile citazione proveniente direttamente dal mondo di Mario Bava.

    Toby Dammit (Terence Stamp) è un famoso attore inglese che accetta di girare un western di matrice cattolica in Italia. Il primo in assoluto. Dedito all’alcolismo e dal carattere antipatico e scontroso, Toby – appena giunto in aeroporto – appare subito infastidito dalla presenza dei giornalisti e non gradisce che gli vengano scattate delle foto. L’unica cosa che pare destare il suo interesse è una bambina vestita di bianco e con lunghi capelli biondi che gli lancia una palla. La bambina ha un sorriso inquietante e sembra che soltanto lui la veda.

    Ad accoglierlo, oltre ai giornalisti, ci sono anche produttori cinematografici e persino esponenti del clero che lo condurranno a tutta una serie di eventi mondani: interviste, sfilate, premiazioni. Ma il tutto si svolge nella sua più totale indifferenza, non sopportando quel clamore, quelle pompose celebrazioni, e ammette candidamente di aver accettato il ruolo soltanto perché la produzione gli ha promesso in cambio una Ferrari. Non potendone più, ad un certo punto, fugge via a bordo del suo nuovo “regalo” e inizia una vera e propria fuga a velocità forsennata per le vie di Roma, arrivando ben presto fuori città. Incurante dei pericoli e come attratto dal fascino di un richiamo misterioso e ossessivo, incontrerà il suo destino alla soglia di un ponte crollato dove si materializzerà nuovamente la bambina con la palla in mano.

    Fellini, pur non essendo notoriamente un regista da film di paura, riesce con questo mediometraggio (minutaggio di 37′) ad infondere un’inquietudine profonda e al tempo stesso affascinante che emerge da un’atmosfera visionaria e grottesca. Tutto è luce, tutto è bagliore, tutto è scintillio: gli studi televisivi, il jet set, la frivolezza della mondanità. Tutto ciò si scontra con il cupo mondo interiore di Toby che affoga nell’alcool la sua esistenza e la cui mano persino una zingara rifiuta di leggere, ravvisando in lui l’infausto destino. Il tipico surrealismo felliniano tocca il suo apice nella corsa in auto sfrecciante a gran velocità per le strade della Città Eterna che qui sembra quasi un’entità smaterializzata, evanescente, proprio come la bambina di bianco vestita e con i capelli biondi che maneggia una palla, esattamente come quella che Mario Bava utilizzò come presagio di morte nel suo Operazione Paura di due anni prima (1966). Una citazione smaccata e per nulla smentita da Fellini stesso il quale però, ad onor del vero, utilizzò già in Giulietta degli spiriti (1965) la visione di una bambina dai lunghi capelli biondi.

    Toby Dammit appare, secondo la mia opionione, il segmento visivamente più curato e affascinante dell’opera, un trittico di cui Metzengerstein di Roger Vadim e William Wilson di Louis Malle costituiscono gli altri due episodi, comunque certamente notevoli e concettualmente interessanti.

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