“CHE FINE HA FATTO BABE JANE?”, O LA SIMMETRIA TRA VITTIMA E CARNEFICE

Fino a che punto può arrivare il risentimento, il rancore, la rabbia repressa, mal celata dietro gesti di generosità e altruismo, nel tentativo di mantenere la parola data all’unica persona dalla quale si sia sentita amata e compresa, mostrandosi gentile, attenta e premurosa nei confronti di chi, gratuitamente, senza motivo alcuno, l’ha ferita e maltrattata, preferendole la tanto invidiata sorella, che, pur con il suo carattere bizzarro e capriccioso, dimostra di averla sempre a cuore: allorché il padre acconsente all’acquisto di un gelato, il suo primo pensiero è che lo abbia anche lei.

    Vissuta all’ombra dei boccoli d’oro della bambina prodigio, Baby Jane Hudson, che registrava il tutto esaurito nei teatri ballando e cantando I’ve written a letter to Daddy, accompagnata al piano dal papà che non aveva occhi che per lei, o per gli incassi che lei gli garantiva, il tempo regalerà a Blanche (Joan Crawford) quel successo di cui la sorella poté beneficiare per breve tempo, dimenticata da tutti, a testimonianza del quale rimane soltanto una vecchia bambola che la ritrae da bambina in abiti di scena. Si invertono i ruoli: Blanche è un’attrice affermata, la diva più celebre del momento, Jane (Bette Davis) vive delle briciole e dell’elemosina che la clausola contrattuale della sorella le garantisce. La sua carriera verrà però bruscamente interrotta a seguito di un incidente del quale è accusata proprio Jane che, forse per espiare la sua colpa, si sentirà in dovere di accudire la sorella, costretta a vivere su una sedia a rotelle nella sua stanza al primo piano con un’unica finestra sul mondo esterno, quella stessa finestra dalla quale, per fuggire agli abusi e ai soprusi di cui è vittima, lancerà la sua richiesta di aiuto che verrà intercettata proprio da chi ne è artefice.

    Jane è sguaiata, lo è la sua risata, a tratti volgare, grottesca, disgustosa, il trucco pesante la invecchia, la imbruttisce, appare ridicola mentre, in abiti di pizzo, va ciabattando per la casa, trovando conforto al suo male di vivere nell’alcool e nel ricordo dei momenti felici sul palco e delle estati a giocare e ballare sulla sabbia, ricordi che riescono a trasformare i suoi grandi occhi allucinati, capaci di incutere terrore, negli occhi di una bambina felice che insegue un aquilone. Blanche è raffinata, veste di sobria eleganza, una sottile linea nera incornicia i suoi due occhi chiari in uno sguardo malinconico e supplichevole, caritatevole verso la sorella accusata di esser la responsabile della sua disabilità perenne.

   Sorelle, rivali, in eterno conflitto tra il sentimento fraterno che le lega e l’invidia che le corrode, la già difficile convivenza si trasforma in un incubo quando Jane scopre l’intenzione di Blanche di vendere la casa e di rinchiuderla in una clinica psichiatrica. Esaltata nella sua incontenibile follia, gode nel terrorizzare la sorella: dapprima le stacca il telefono, dipoi le serve scioccanti colazioni: il passerotto che teneva in gabbia, persino un topo! Si sente tradita, e quando Blanche si trascina al piano di sotto in cerca di aiuto, Jane si scaglia contro di lei con una furia inaudita, ridotta in fin di vita, la rinchiude nella sua stanza legandole i polsi alla capra da letto e tappandole la bocca con del nastro adesivo; non esiterà a uccidere la domestica, corsa in suo aiuto, colpendola alle spalle con un martello. Sarà lo squattrinato giovane piantista Edwin Flagg (Victor Buono), ingaggiato da Jane perché la accompagni nel suo agognato ritorno al successo, insospettito da un tonfo proveniente dal piano di sopra, a scoprire, e denunciare poi, lo stato in cui versa Blanche. “Hudson Maid!”, titoleranno i giornali. A Jane non resta che la fuga: carica la sorella, priva di forze, sulla Lincoln nera e guida fino al mare. La adagia sulla sabbia, è già mattino. Ritorna bambina, fa castelli di sabbia, cammina sulla battigia. Blanche, ormai in fin di vita, confessa che la sera dell’incidente non era Jane al volante dell’auto, troppo ubriaca perché potesse guidare.

“Eri stata feroce con me a quella festa, mi scimmiottavi (…) io volli investirti (…) tu ti scansasti in
tempo ma io colpii il pilastro e mi ruppi la spina dorsale.”, la risposta di Jane è di un candore e di una ingenuità disarmante.

“In altre parole, in tutti questi anni avremmo potuto essere amiche?”

    Blanche ammette la sua colpa, sol perché ormai le resta poco da vivere, riconosce di aver architettato
tutto così che la responsabilità fosse attribuita a Jane, e ciò nonostante, il suo moto non è di rabbia,
ma di affetto per la sorella.

“C’è uno chalet dove vendono gelati, a te piace il gelato, vado a comperartelo.”, quel gelato che, anni prima, Blanche aveva rifiutato.

    Con in mano due coni al gusto di fragola, circondata dai bagnanti attirati da due poliziotti che l’hanno
riconosciuta, mentre Blanche, poco distante, muore, la bambina Jane balla, balla da sola davanti ad
un pubblico curioso e incredulo.

    Nella infantile e catartica danza svaniscono le colpe di Jane, vittima delle macchinazioni di Blanche
che, non riuscendo a disfarsi della sorella, finirà per subirne le angherie, indirettamente carnefice di
se stessa e artefice della sua disfatta.

    Che fine ha fatto Baby Jane? regia di Robert Aldrich, titolo originale What happened to Baby Jane?,
dal romanzo omonimo di Harry Farrell del 1960, pellicola che ebbe la sua prima assoluta a Cincinnati
il 31 ottobre 1962, uscirà in Italia il 17 maggio 1963, candidata a cinque premi Oscar, tra cui quello
per migliore attrice protagonista a Bette Davis, vincerà l’Oscar per i migliori costumi nella categoria
“Bianco e nero” (Norma Koch).

    Del 1991 è il remake per la TV, ideato e prodotto da William Aldrich, figlio di Robert, e interpretato
dalle sorelle Vanessa e Lynn Redgrave.

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ASCinema – Archivio Siciliano del Cinema

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