RIEVOCANDO LUCHINO VISCONTI

Uno dei “grandi” del cinema italiano, lunghissima carriera, pluripremiato nei maggiori festival, e una lista di film che hanno fatto data nella storia del nostro cinema. S’è parlato relativamente poco dei suoi lavori di fine carriera, del suo quattordicesimo lungometraggio, ad esempio, sceneggiato con Suso Cecchi D’amico e Enrico Medioli: Gruppo di famiglia in un interno (1974).

    “Lo spunto me l’ha dato Enrico Medioli: la storia di un professore, di un uomo gà anziano, isolato, chiuso in se stesso, collezionista di opere d’arte, soprattutto di quei dipinti che gli inglesi chiamano Conversation pieces, e cioè ritratti, gruppi di famiglia in un interno, o in un esterno. L’idea mi è piaciuta subito anche perché, dopo la mia malattia, mi avrebbe consentito di realizzare un film in un unico ambiente, senza esterni disagevoli come in Ludwig (1973), ad esempio, che avevo girato persino in alta montagna con la neve. Con Medioli, appena varato il progetto, ne abbiamo parlato a Suso Cecchi D’amico e dopo abbiamo scritto tutti e tre insieme la sceneggiatura. Al centro dell’azione, il professore, il collezionista. Un uomo che nella vita ha fatto anche cose belle e che certe decisioni che ha preso in passato le ha prese per motivi giusti; la scienza, ad esempio, che ha abbandonato quando ha visto che nella società odierna è pericolosa, e porta al disastro. Dopo, però, si è chiuso nel suo guscio, preferendo agli uomini le opere del loro ingegno, isolato da tutti, egoista. Di origini è americano, ma aveva una madre italiana e da lei ha ereditato un palazzo antico a Roma,  in cui si è quasi barricato, chiudendo la porta in faccia a tutti, salvo ai mercanti d’arte. Un giorno, però, la sua solitudine è violata da un gruppo particolarmente scombinato, una “strana” famiglia composta da una madre, una figlia e il fidanzato di quest’ultima. La madre ha un amante al quale vorrebbe regalare un appartamento di proprietà del professore, in quello stesso palazzo. La figlia le tiene la mano anche perché – nonostante il fidanzato – ama l’amante della madre. Il giovane, a suo tempo non privo di ideali (a Berlino ha partecipato ai moti studenteschi del ’68), adesso per il denaro farebbe qualsiasi cosa e sta al gioco di tutti. Il professore, sulle prime, si comporta secondo il suo solito, si irrigidisce, si inalbera, affrettandosi ad elevare tutte le barriere possibili fra sé e quest’intrusi, poi, invece, si lascia quasi coinvolgere, a causa delle loro sfrontate insistenze, anche perché, nonostante tra lui e loro ci sia un abisso – di modi, di mentalità, di generazioni – lo sforzo di ascoltarli, di capirli, a un certo momento persino di aiutarli, lo sveglia da un sonno che era come la morte e gli ridà la vita; una vita – ammette – che forse non capisce ma che, indubbiamente , è vita.

    Con le contraddizioni, naturalmente, che ci sono, in tutti gli esseri umani, anche in me, anche in te, in tutti. Il professore, infatti, ha una sua morale precisa – per questo, a un certo momento, quando si accorge che i suoi “invasori”, chi più chi meno, partecipano ampiamente di tutti i vizi della gioventù di oggi, li rimprovera aspramente – ma un vizio ce l’ha anche lui, ed è il suo egoismo. Prima lo ha difeso, poi un po’ vi ha rinunciato, ma alla fine, quando si rende conto che quell’aggressione è troppo violenta ed impegnativa, allora vi ritorna; pronto a chiudersi di nuovo in se stesso. Con risultati negativi, è chiaro, perché l’egoista che si rifiuta di occuparsi degli altri non può finire che drammaticamente, con una terribile lacerazione del suo essere. L’egoismo porta sempre male.

    Se lui è ambiguo, però, gli altri personaggi del “gruppo” non sono meno ambigui di lui; anche Conrad, il giovane tedesco, che è il tipico “eroe” nero e bianco; come tutti gli “eroi”, del resto, che sono sempre un po’ neri e un po’ bianchi. Ho preferito che fosse così: l’ambiguità è sempre migliore della chiarezza, che spesso rischia di essere pesante, volgare. Nei “caratteri” drammatici, s’intende, non nella vita. Non mi va quando a qualcuno viene in mente di far delle ricerche autobiografiche sui personaggi che invento. Lo hanno fatto anche per Il Gattopardo (1963) che era stato scritto da Tomasi di Lampedusa… In ogni mio personaggio, è chiaro, c’è anche qualcosa di mio, succede a tutti gli autori, ma l’autobiografia non c’entra. Non crediate, tanto per restare al personaggio del professore, che io sia un egoista? Semmai, anzi, mi sembra di essere una persona che cerca sempre il contatto umano”.

Di profondamente viscontiano emerge, però, restando a Gruppo di famiglia in un interno, il suo atteggiamento rispetto alla società di oggi, il modo di comunicare con la gente, con i giovani.

    “Il giudizio sui giovani, ad esempio, sono io che lo dò, rappresentandoli; il professore si limita a fare il testimone. È il mio modo di guardare ai temi che espongo e che affronto. In questo caso è un giudizio totalmente negativo. Non la conosco più, ormai, la generazione dei giovani, ma per quel che la conosco eccola lì, tutto il tempo al telefono, indifferente a tutto, fuorché a se stessa… E così che la società, che è disastrosa, sia per i giovani che per i vecchi. Un disgregamento totale. Di cui soffriamo tutti. Nella incapacità completa di risolvere qualunque problema di fondo. No mi riferisco alla situazione politica, che è solo un aspetto, ma di quella umana, di quella morale. Questo per la società in generale, e per quella italiana, naturalmente. Non a caso nel film ci sono anche le “trame nere”, motivo probabile della morte di Conrad che ad un certo punto le denuncia. Le “trame nere”! Per non dimenticare uno dei guasti tipici, e più spregevoli, delle nostre cronache di oggi; specchio di un epoca tutta sbagliata.”

L’azione del film è subito volta alla catarsi, senza dilungarsi. E, il groviglio drammatico, come spesso nei miei film, si stringe e poi si scioglie durante un pranzo in famiglia, come in Rocco e i suoi fratelli(1960) – ricordate? – e ne La caduta degli Dei (1969). Una situazione che dovrebbe essere un’occasione serena, e d a cui, invece, nascono lo scontro, l’esplosione, con i nodi che vengono al pettine.

    La mia regia ha cercato di tenere sempre il pubblico a contatto con i personaggi. Le immagini, così, in genere, sono dei “primi piani” molto grandi che tendono ad avvicinare il più possibile i personaggi al pubblico; e con molta intensità. (Invece, di solito, faccio il contrario: dei grandi “totali”, delle scene molto lunghe, per dare un senso di distanza, di prospettive). Il ritmo, perciò, anche se tutto si svolge in un interno è sempre molto stretto, compatto, e senza sproloqui. Per questo, anche in quei momenti in cui, per arricchire il personaggio del professore, ho voluto evocargli attorno dei ricordi – la madre, la moglie – l’ho fatto in modo diretto, senza i soliti trucchi del cinema (c’è una sola dissolvenza), collocando, immediatamente lì, nella stanza, i personaggi evocati. Del resto, un modo di ricordare siffatto non è quello che ci capita anche normalmente nella vita? Quante volte stiamo lì, a leggere, soli, e all’improvviso qualcosa ci ricorda nostra madre che da quella poltrona ci parlava! Nella casa in cui vivo adesso non mi capita, ma mi capiterebbe di sicuro nella vecchia casa di campagna. Mia madre, seduta, che mi dice: “Non sei stato molto buono con il nonno, che è solo e vecchio, poveretto!“. E così, nel professore, quel ricordo della moglie che gli è suggerito dalla presenza di Conrad. Il riferimento lo ritrovi in Thomas Mann. Quante volte i suoi personaggi ritornano, attraverso le loro donne, a certi ricordi di compagni di scuola, di amici! Tutto molto realistico, perciò. Anche se con una vena d’angoscia, di sgomento. Almeno così mi sembra. L’angoscia di due generazioni che incontrandosi si scoprono incapaci di incontrarsi, di comprendersi. Un esempio? Quando il professore, in piena notte, trova in casa sua i tre ragazzi nudi che fumano marijuana, per lui è un momento d’angoscia totale. E quando la ragazza, che non se ne rende neanche conto, gli dice, tranquilla: “Lo avrà fatto anche lei, vero, professore?“, lui sbalordito, reciso, prende subito le distanze: “Assolutamente no, mai!“, risponde”.

Un’analisi dettagliata meritano gli elementi imprescindibili che rappresentano il cinema di Visconti, ossia la musica, le scenografie, la fotografia.

    “Il bravo compositore palermitano Franco Mannino compose la musica. Gli ho chiesto se la facesse ispirare dal secondo tempo della Sinfonia concertante di Mozart, che è anche il brano che il professore sente alla radio quando ricorda la moglie: un po’ valzer, un po’ canzonetta, ma stupendo. Con un tema ricorrente, quello di Conrad, che potremmo definire il tema dell’installazione di un essere nella vita di un altro e che, nel film, diventa anche il tema dell’appartamento di sopra e di tante altre cose insieme; perché quando una persona si installa nella tua vita, tutte le cose che la riguardano ti riportano fatalmente a lei.

    Le scenografie sono di Mario Garbuglia, che ha completamente ricostruito l’interno del palazzo, dove vive il professore. E anche quella vista di Roma, in esterno: un centro storico, delle cupole barocche che nella realtà non esistono, ma che, a mio parere, sono lo sfondo giusto per la Roma che volevo appena accennare, come fra due quinte di teatro. La fotografia l’ha curata Pasquale De Santis. Per l’appartamento del professore, zeppo di cose d’arte, di oggetti preziosi, è tutto un chiaroscuro; al piano di sopra, invece, per l’appartamento di Conrad, è tutto asettico, modernizzato, è nitido, luminoso. Un contrasto evidente.”

    Nella mia carriera, Gruppo di famiglia in un interno somiglia a molti altri film che ho girato, ma per certi aspetti non somiglia a nessuno al contempo. Di altri ha, ricorrente, il tema della solitudine. C’era già ne Il Gattopardo, in Morte a Venezia (1971), in Ludwig (che avevano al centro personaggi la cui solitudine si rivela con gli anni), ma c’era anche ne Lo straniero (1967), in Senso (1954), in Rocco e i suoi fratelli, in Vaghe stelle dell’Orsa… (1965), i cui personaggi, o per libera scelta, o per colpa degli avvenimenti, finivano per ritrovarsi quasi sempre soli con se stessi. Di diverso e di nuovo ha invece, lo ripeto, quelle immagini che si stringono tutte addosso ai personaggi, serrandoli da vicino, per metterli sempre faccia a faccia col pubblico”.

La carriera professionale di Visconti è tracciata e sta lì, indelebile, a perenne oggetto di passione, studio e arte. Cos’ha cercato dal cinema il grande Maestro è una riflessione che emerge come riflessione centrale.

    “Non mi è mai piaciuto pensare al mio cinema solo come uno spettacolo evasivo. Che insegni qualcosa. Che spieghi la vita, i rapporti umani. Soprattutto nell’era attuale, dove tutto è sbagliato. Il cinema può aiutare, specie se lo si fa in buona fede. Gruppo di famiglia in un interno, ad esempio, se i giovani ci si riconoscono, dovrebbe poterli aiutare. Conosco parecchi giovani e vedo come agiscono: per un pizzico di cocaina farebbero qualunque cosa, buttando via tesori di affetto, di amicizia. Se, vedendo il film si rendono conto di questo e dei disastri che si tirano addosso, un qualche aiuto, forse, finiranno per riceverlo. Magari senza migliorare, ma almeno cominciando a riflettere”.

Pubblicazioni di riferimento: 7 domande a 49 registi di Gian Luigi Rondi (SEI Ed.) , Cineforum (AA. e Nrr. VV.), Filmcritica (AA. e Nrr. VV.), Positif (AA. e Nrr. VV.), Chaiers du cinéma (AA. e Nrr. VV.), Bianco e nero (AA. e Nrr. VV.).

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