TRA STEREOTIPI E FISSITÀ IMMUTABILE

Lo stereotipo indica la ripetizione o una fissità immutabile. E questa “fissità immutabile” che stupisce ritrovare nella rappresentazione della Sicilia operata dal cinema fin dai suoi albori.
Non solo da quello che mira essenzialmente al botteghino ma anche, purtroppo, dalle opere di famosi e acclamati autori del cinema italiano.

    Più che a stupore, però, muove a indignazione la disinvoltura con cui, quasi sempre al riparo dell’ inossidabile etichetta del “cinema di impegno civile», si continui a sorvolare sulle grandi contraddizioni, i laceranti conflitti, culturali, politici, generazionali, che la Sicilia ha vissuto in questi ultimi anni e vive tutt’oggi, preferendo troppo spesso attingere a immagini e categorie preconfezionate per descrivere la realtà e la gente di Sicilia.

    Se proviamo a sostituire al set cinematografico la sala di montaggio e quella di doppiaggio, possiamo immaginare l’esistenza di enormi magazzini pieni zeppi di stereotipi, all’interno dei quali uno spazio rilevante è occupato dagli “Archivi Generali Stereotipi Siciliani’: chilometri e chilometri di spezzoni di pellicola già belli e pronti, intere bobine pre-filmate, rotoli di scenografie di cartapesta e di paesaggi oleografici, maschere archetipe di siciliani folkloristici, il tutto rigorosamente ordinato sulla base dei diversi generi cinematografici. Ad esempio, per i protagonisti e i figuranti del “western alla siciliana” si può ricorrere all’intera gamma della mafiosità e della paramalosità (nelle celebri categorie degli uomini, mezzi uomini, ominicchi e quaquaracquà); per il thriller a sfondo passionale con delitto d’onore, c’è solo l’mbarazzo della scelta tra uomini e donne divorati dalla passione o dalla gelosia, che tramano nell’oscurità indicibili vendette o subdoli piani omicidi; per le voci, ci sono ancora da smaltire chili di nastri magnetici pre-registrati risuonanti delle terribili e grottesche inflessioni a base di “…aah, aah”, ma anche, grazie oggi ai potenti mezzi delle produzioni specializzate in “communication“, versioni più raffinate in DVD con le voci in “siculo moderno” di giovani attrici (italiane o straniere) di belle speranze.

    Tutto questo serve certo a risparmiare tempo e denaro, ma anche a non deludere o fuorviare le aspettative del pubblico italiano e internazionale; tanto più oggi che i film sulla Sicilia sono tornati ad essere un grosso business e che quasi sempre essi sono finanziati e poi girati avendo in mente, più che la versione cinematografica, quella televisiva “d’esportazione” inevitabilmente ossequiente ai dettami stilistici e contenutistici dei mercati esteri. In effetti, la funzione peculiare dello stereotipo è quella di aderire pienamente alle aspettative del pubblico. Lo stereotipo, per definizione, rifugge dalla complessità, prescinde dal divenire: i personaggi sono quelli che nella critica letteraria verrebbero definiti “personaggi semplici” privi di qualsiasi sfaccettatura. Ma, attenzione: non vogliamo qui affatto sostenere che lo stereotipo sia un falso in sé. Anzi, lo stereotipo nasce da situazioni ben reali e consolidate nel tempo, un tempo misurabile in secoli quando non in millenni; è un po’ come la consuetudine giuridica che per formarsi ha bisogno di sedimentare per un lungo arco di tempo, ma di un tempo ancora maggiore per decadere.

    Lo stereotipo principe della “Sicilia, terra di mafia” su cui tanto hanno speculato (nell’accezione economica del termine) il cinema e, da ultimo, la televisione, è dunque tutt’altro che una ”invenzione” dei malvagi registi del Nord; la mafia, intesa come potere collaterale o alternativo allo Stato, ha alle spalle una storia più antica di quella del cinema e che il cinema ha ovviamente provato a raccontare, sin dai suoi esordi al tempo del muto, da quel film-documentario del 1909 “Gli imponenti funerali del poliziotto americano Joseph Petrosino“. Ma la mafia come istituzione criminale e come fenomeno culturale ha vissuto nei decenni continue e a volte radicali evoluzioni e trasformazione che non sempre il cinema ha saputo o voluto recepire.

    Ciò che non è stato colto con chiarezza – tranne pochissime lodevoli eccezioni – è, in particolare, la vera intrinseca natura della mafia, che nasce storicamente come fenomeno di reazione sociale a uno stato di sottosviluppo endemico, ma si pone ben presto come espressione di classi dirigenti (almeno a partire dai processi di sviluppo economico conseguenti all’Unità d’Italia). D’altra parte, non è soltanto il cinema in ritardo ed anzi la sua colpa è veniale (specie perché ha più solide giustificazioni “economiche”) rispetto alle stesse scienze sociali che hanno per lunghissimo tempo indugiato nella visione della mafia come “subcultura”, una mafia considerata soprattutto nella sua dimensione “rurale”: una visione anacronistica, dura a morire, che si accompagna ad una iconografia “campestre”, tesa a sottolineare la sostanziale “alterità, del modello sociale mafioso: lupara, coppola, giacche di fustagno rattoppate, marranzani, donne in scialle nero etc…figure archetipe e immutabili che, con i dovuti aggiustamenti, continuano, come vedremo, ad accompagnarci, con le dovute evoluzioni dei linguaggi narrativi.

 

SERGIO DI GIORGI

Redazione, ASCinema – Archivio Siciliano del Cinema

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