MICHAEL VERHOEVEN, DAL TEATRO E DAL CINEMA BERLINESE

Esponente del Nuovo cinema tedesco, berlinese, prima attore e regista di teatro, poi, dal 1962, anche autore cinematografico. Il suo film su cui si posa il nostro focus è Ein unheimlich starker Abgang (Una stupenda inverosimile fuga), realizzato nel 1973.

Quale è il tema del film?

«L’incapacità di evolversi e di agire di una piccola provinciale. È la storia di Sonja, una dolce e brava ragazza, anche abbastanza intelligente, che non ha imparato a comportarsi in modo critico: la tipica donna, insomma, pronta ad assumere domani il ruolo passivo che le assegnerà la società. Cerca la felicità, come tutte, ma non ha un’educazione e una formazione sufficienti per realizzarla nella propria vita. Così, a un certo punto si ribella. Uccidendo proprio la persona che ama di più».

Ma come può la ribellione di una «dolce e brava ragazza», arrivare fino al delitto?

«Il film non risponde direttamente a questo interrogativo, lo “rappresenta” e solo implicitamente vi dà una risposta proponendo un personaggio che non sa agire ma che sa solo reagire; per colpa di una educazione sbagliata e di strutture familiari e sociali inadeguate. Il suo, ovviamente, è un gesto assurdo, se lo si giudica con un metro normale, ma per lei, oppressa, soffocata, contorta, più vittima che non colpevole, è l’unico mezzo che, facendole vincere la sua passività, le consente di esprimere la sua confusa aspirazione ad essere considerata non più come un semplice oggetto, ma come un soggetto. Esattamente come nel caso di quei cinque soldati americani protagonisti del mio film O.K. (1970). Anche lì, se vogliamo, l’interrogativo era: perché mai dei bravi giovanottoni in divisa infieriscono su una povera ragazza vietnamita, torturandola senza motivo e uccidendola? E anche lì la risposta faceva, implicitamente, ricadere sulla società (e sulla guerra) le responsabilità più profonde. Sulla guerra, soprattutto, che annientando quei soldati fino al rango di oggetti, consentiva loro di diventare “soggetti” solo attraverso i crimine, la violenza».

Anche questo suo ultimo film, come O.K., è ambientato in Baviera. C’è una ragione?

«Sì, ma non tanto per la Baviera, quanto per la provincia. Nell’un caso e nell’altro avevo bisogno, attorno ai miei personaggi, di una cornice provinciale, com’è appunto quella che può offrire oggi la Baviera con molte sue cittadine, molti suoi centri rurali. E perché la provincia? Perché in provincia proliferano un po’ dappertutto dei piccoli e reconditi meccanismi di repressione che, sotto il pretesto del decoro, delle convenienze, di “quel che dirà la gente”, soffocano nell’ individuo ogni possibilità di evolversi, di progredire, di liberarsi. In provincia, almeno da noi in Germania, lo Stato, la Chiesa, la scuola formano ancora un blocco solo, granitico, compatto; e quel blocco favorisce una sorta di “piccolo fascismo” che agisce senza che nessuno possa opporvi degli ostacoli. A tutto danno di chi cerca un’individualità, una personalità».

Un film anche politico, dunque, impegnato?

«Ma anche un film d’amore. Sull’amore ostacolato, anzi, addirittura annullato da una società che, tutta tesa al rendimento, al perfezionismo, alla funzionalità, ha sostituito dovunque l’amore con la solitudine».

Un tema che ricorre spesso nei suoi film, la solitudine.

«Sì, perché la solitudine, se la si analizza da vicino, non è solo la conseguenza dell’attuale struttura sociale, ma ne è la premessa. Con quale metro, infatti, la società valuta oggi un individuo? Con quello della sua solidità economica, del suo rendimento. Chi non possiede, chi non rende, chi non produce, è accantonato, è isolato. Come i vecchi, ad esempio, che in questo sistema non trovano più nessuna collocazione perché ritenuti, ormai, improduttivi. E come quei giovani che ancora non sono riusciti a inserirsi nei meccanismi economici e che mascherano spesso l’isolamento in cui sono tenuti con operazioni sociali a sfondo vagamente redditizio quali un primo impiego, la musica pop, certi hobby. Tutti vivono in solitudine, tutti ne soffrono e la prima vittima è proprio l’amore. Come può esistere, infatti, l’amore in una società in cui la solitudine la vince solo col denaro?».

Come riassumerebbe la sua carriera?

«Ho fatto l’attore per pagarmi gli studi in Medicina, però, anziché esercitare, ho preferito diventare regista, prima in teatro e poi nel cinema. Il teatro mi è servito per dirigere il mio primo film Paarungen (1967), che era tratto da Danza di morti di Strindberg. Il mio secondo film, sui colloqui parigini per il Vietnam, ha subito una strana sorte. Io ho cercato di attenermi ai fatti, i filo-comunisti, invece, lo hanno ritenuto anti-comunista, e i filo-americani, dal canto loro, lo hanno ritenuto anti-americano. Poi ho realizzato O.K., per cercare di capire, appunto, cosa poteva indurre un militare a torturare una persona inerme, e per poco non andava all’aria il Festival di Berlino dove lo avevo presentato nella sezione Repubblica Federale di Germania. Adesso, con mia moglie Senta Berger, ho creato una società di produzione per creare in libertà i film che sento di dover realizzare in questo particolare momento».

Lei è figlio di un attore, ha sposato un’attrice, ma nei suoi film, in genere, i non professionisti sono sempre più numerosi dei professionisti. Perché?

«Non faccio differenze fra attori professionisti e non professionisti. L’unica differenza che faccio è che siano o non siano dei bravi attori. E, naturalmente, che abbiano non solo le “facce giuste” per i personaggi che penso loro di affidare, ma anche certe affinità interiori con i caratteri da esprimere. Non credo assolutamente agli attori che possono tirar fuori a comando qualsiasi tipo di sentimenti e di reazioni senza provarne nemmeno il più piccolo riflesso. Almeno da noi in Germania, dove gli attori hanno tutti caratteri ben definiti, poco flessibili. In Italia, forse è diverso.Un attore italiano, anche se preso dalla strada, ha quasi sempre in sé un arcobaleno di sentimenti da esprimere. E per un regista, quelle, sono tastiere da cui si può cavare qualsiasi tipo di musica; senza che una sola nota suoni falsa; o stonata».

Pubblicazioni di riferimento: Positif (AA. e Nrr. VV.), Image et son (AA. e Nrr. VV.), Chaiers du cinéma (AA. e Nrr. VV.), Cinématographe (AA. e Nrr. VV.), 7 domande a 49 registi di Gian Luigi Rondi (SEI Ed.)

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