LUIS BUÑUEL E L’INACCETTABILE PROSTITUZIONE DELL’ARTE

Un Maestro del cinema, spagnolo di nascita. Esordì ne 1928 con Un cane andaluso, soggetto e sceneggiatura in collaborazione con Salvador Dalì, che testimonia – come due anni dopo L’âge d’or – della sua adesione al surrealismo. Film negli Stati Uniti e in Messico, dopo la guerra civile spagnola, poi, da 1955, anche in Francia. Tra i suoi film più emblematici, salutato ovunque da larghissimi consensi, è Il fantasma della libertà, uscito in Italia nel 1974.

Un film misterioso, don Luis, che lei non ha mai voluto spiegare. Può fare oggi un’eccezione per me?

    « Misterioso? No. Ma in genere, lei lo sa, non parlo; gli incontri, le interviste non sono il mio genere. Cosa è questo Il fantasma della libertà? Per prima cosa, una libertà totale. La libertà che mi sono presa perché ho voluto essere liberamente quello che voglio essere. Come con Un cane andaluso, dove non c’era né il “cane” né l”‘andaluso”. E così ne Il fantasma della libertà. Dove non c’è né il fantasma né la libertà. Un titolo del tutto arbitrario. Una cosa libera. Un’associazione di storie, di idee, di sogni; sì, in un certo senso anche di sogni. I personaggi sono settantadue, ma non ci sono protagonisti. Si comincia con una storia qualunque, con al centro un personaggio qualunque: io seguo questo personaggio, ma prima che la sua storia sia finita, ne incontro un altro, con la sua storia; mi metto a seguire quello, quindi ne incontro un altro; e un altro ancora. E arrivo alla fine così, ma si potrebbe anche non finir mai, perché la continuità che si è venuta creando con questo sistema è totale; e potrebbe andare avanti all’ infinito. Con una serie di sketche che si susseguono uno all’altro, l’uno scaturendo dall’altro. Una struttura ad incastro in cui un’immagine, una situazione, ne suggeriscono un’altra, e poi ancora un’altra; e così fino alla fine. In un clima costante di ambiguità, se vogliamo, ma è l’ambiguità che a me interessa. Se una storia è evidente, scoperta, per me è già finita. Quanto allo stile, diciamo che è, o vuole essere, quello delle vecchie commedie drammatiche. Abbastanza comico. Di una comicità, però, che tende soprattutto all’umorismo, anzi, all’umor nero.

    « Tutto qui. Adesso, però che il film l’ho finito, lo odio a morte. L’idea di averlo pensato, di averlo realizzato e, poi, di vederlo, mi ripugna; di una ripugnanza istintiva. Vorrei bruciar tutto. Forse perché, a forza di vedere le stesse immagini, ne vedo i difetti che non avevo visto prima, le ripetizioni, le lentezze. O forse perché, per natura, sono un distruttore… ».

Ma se è uno dei più grandi autori cinematografici del mondo!

    « Chi? Io? Questo sì che è un mistero. Glielo dico sinceramente, come amico, questo è proprio un mistero. Non riesco a capire, onestamente, come i miei film abbiano potuto avere tanta risonanza. Questo o quel film, come Un cane andaluso, ad esempio, ancora lo capisco, ma che l’insieme della mia carriera abbia potuto suscitare tanto interesse, è una cosa che mi lascia stupefatto. E del resto, anche il successo di Un cane andaluso mi aveva sbalordito. Avevo così paura del pubblico che quel giorno, alla prima, ci ero andato con le tasche piene di sassi. Non si sa mai, mi ero detto, posso sempre averne bisogno per difendermi. Ero dietro allo schermo, con un grammofono, e mettevo i dischi che servivano da commento: Tristano e Isotta, un tango argentino, ancora Tristano e Isotta, ancora il tango. E sempre con la paura che succedesse il finimondo. In sala c’era gente importante, Le Corbusier, quelli che leggevano i Cahiers d’Art… Anziché gli urli che mi aspettavo, invece, alla fine mi arrivò un uragano di applausi. Non riuscivo a spiegarmene le ragioni. E avevo un solo problema: cosa faccio, adesso, dei sassi che ho in tasca? Sì, lo so, c’è chi dice che sia tipico del genio non rendersi conto di quello che è. Se è così, in questo caso, io sono proprio un genio; un genio formidabile ».

Cosa domanda al cinema, don Luis?

    « Non è semplice risponderle. Io domando al cinema che mi mostri un altro mondo; un mondo che non vedo abitualmente. In qualche caso, eccezionalmente, può piacermi un film che mi mostra il mondo che conosco, ma in genere preferisco quelli che mi rivelano un altro mondo; un mondo capace, a sua volta, di rivelarmi il mondo reale in cui vivo. Andare al cinema, lo sa, non mi piace, ma il cinema lo amo per la possibilità che ha di farci esprimere noi stessi. Niente meglio del cinema riesce infatti a mostrarci una realtà diversa da quella che tocchiamo con mano
tutti i giorni. Attraverso i libri, i giornali e la nostra stessa esperienza quotidiana, arriviamo a conoscere una realtà esterna, oggettiva. Il cinema, con i suoi meccanismi, ci apre invece una piccola finestra su una realtà che prosegue e prolunga quell’altra, la oggettiva. La mia aspirazione, come spettatore cinematografico, è che un film mi riveli qualcosa. Ma mi succede di rado…

    « Comunque anche il “reale” mi interessa. In questo caso però, domando al cinema di essere testimone del reale facendomi il resoconto di quello che, nel reale, è più importante. Per questo il vostro neo-realismo non mi ha interessato. La realtà ha mille facce e ogni uomo vi si rispecchia con una faccia diversa. A me preme una visione integrale della realtà, io voglio penetrare soprattutto nell’universo meraviglioso del non conosciuto. 11 resto ce 1’ho sempre a portata di mano, ogni giorno. Guardi I figli della violenza (1950) ad esempio. Un film concreto, di lotta sociale. Ma quella realtà l’ho portata sullo schermo con il mio amore solito per l’istintivo e l’irrazionale che si possono scoprire in tutte le cose. Perché sia così, non so dirglielo. So solo che, delle cose, mi affascina e mi attira soprattutto l’aspetto strano, sconosciuto… ».

Parliamo allora del surrealismo e che ha in lei, al cinema, uno dei suoi massimi esponenti.

    « In generale, direi che il surrealismo non è stato solo un movimento artistico, ma anche un movimento morale. È stato proprio il surrealismo a rivelarmi che la vita ha un senso morale di cui 1’uomo non può assolutamente fare a meno. È strano a dirsi, ma attraverso il surrealismo ho scoperto, e per la prima volta, che l’uomo non è libero del tutto. Fino a quel momento, io credevo alla libertà totale dell’uomo, il surrealismo invece mi ha fatto vedere che esiste una disciplina e che questa disciplina va rispettata. È stata, per me, una grande lezione di vita, ed è anche un grande passo in avanti: meraviglioso, poetico. Adesso è da un pezzo che non faccio più parte di quel movimento, ma in quasi tutti i miei film, anche in quelli a basso costo che ho realizzato in Messico, ho messo sempre qualcosa di mio in senso surrealista; non tanto forse nelle immagini, in superficie, ma dentro, nelle ragioni morali, nelle motivazioni intime… ».

Come riassumerebbe la sua carriera?

    « Sono stato degli anni senza lavorare. fa guerra di Spagna mi ha fermato. Ho passato una decina d’anni negli Stati Uniti, poi sono andato al Messico dove ho fatto dei film molto alla svelta, girandoli quasi tutti, salvo Le avventure di Robinson Crusoe (1953) e, più tardi, Nazarín (1959), in un massimo di venticinque giorni. No, non si trattava di un record. Per il Messico, quelli, erano i tempi giusti. C’era chi doveva girare anche più in fretta. Salvo Emilio Fernandez, naturalmente. A lui era permesso tutto. Film alla svelta, di corsa. E anche molto brutti. Come Gran Casino, nel 1947, con Jorge Negrete e Libertad Lamarque. Ma anche in questo caso ho sempre rispettato il mio principio surrealista: “La necessità di mangiare non giustifica mai la prostituzione dell’arte ». Film brutti, veramente brutti, ne ho realizzati almeno tre o quattro, ma senza passar mai sopra al mio codice morale. Lo so, avere un codice, per certa gente, è una cosa puerile. Ma per me no. Sono contro la morale convenzionale, i fantasmi tradizionali, il sentimentalismo, tutte quelle porcherie morali che la società ha cacciato dentro a viva forza nel sentimentalismo, ma anche se ho fatto dei brutti film, mi sono sempre preoccupato che fossero, almeno, moralmente degni. E nessuno può smentirmi ».

Cosa pensa della società di oggi?

    « Abominevole, Rondi! Abominevole! Amo l’uomo, la persona, i miei amici, gli amici dei miei amici, ma la società, I’organizzazione attuale, la distruzione della natura, l’anarchia totale, la religione nella politica, tutto questo è orribile. Il problema della polluzione dei mari e dei fiumi mi fa star male. Per questo vivo solo, lontano da ogni teoria, da ogni mistica. Ho una casa al Messico, prima era più isolata, adesso, attorno, ci hanno fabbricato un centro commerciale, perché la città sta ingrandendosi, ma riesco lo stesso a sentirmi come se fossi in campagna. Una volta la settimana vengono a trovarmi gli amici, ci beviamo un bicchiere di vino – perché a me il vino piace – e dimentichiamo un po’ quello che c’è fuori. Viaggiare non ne ho più voglia. Mi fa malinconia rivedere le città che una volta mi piacevano tanto soffocate adesso dalla folla, angosciate dal traffico, oppresse da un’atmosfera irrespirabile. Roma, ad esempio. La adoro, ci sono stato l’ultima volta nel 1955, quando andavo in Sardegna per girare un film con Lucia Bosè. Adesso mi dicono che non ci si cammini neanche più… ».

Uno sguardo verso il suo futuro, don Luis?

    « Per farmi fare Il fascino discreto della borghesia i produttori sono venuti cinque volte in Messico a parlarmi. Non volevo. Ho scritto il soggetto solo per divertirmi e con il patto che dopo, se non mi andava, avevo tutta la libertà di non realizzarlo. Poi l’ho fatto. Ma proprio perché non la finivano di insistere. E la stessa cosa era accaduta nel 1968 per La via lattea. E anche l’altr’anno per Il fantasma della libertà. Ma adesso basta davvero. Ho settantacinque anni e anche se volessi penso che sarebbe difficile. Comincio a essere stanco di sbagliare… »

Pubblicazioni di riferimento: 7 domande a 49 registi di Gian Luigi Rondi (SEI Ed.) , Cineforum (AA. e Nrr. VV.), Filmcritica (AA. e Nrr. VV.), Positif (AA. e Nrr. VV.), Chaiers du cinéma (AA. e Nrr. VV.), Bianco e nero (AA. e Nrr. VV.).

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