LE “VITE ESILIATE” DI MELO FRENI

Cresciuto in Sicilia, fra la provincia di Messina e Palermo, si laureò in giurisprudenza nel capoluogo siciliano. Dopo aver esercitato la professione forense per un breve periodo, entrò alla RAI come giornalista, prima alla redazione di Palermo e quindi a Roma presso la redazione del TG1. Carmelo Freni, detto Melo, nato a Barcellona Pozzo di Gotto il 19 luglio 1934, è un giornalista, scrittore e regista.

    Nel periodo trascorso in RAI si è occupato soprattutto di cultura, visti tra l’altro i suoi interessi nel campo della letteratura e del cinema. Egli ha saputo affiancare alla sua professione di giornalista, anche quella di scrittore di romanzi, saggi e testi teatrali e quella di regista cinematografico e teatrale. Nel 1984 ha ricevuto il Premio Nazionale Letterario Pisa, Poesia ex aequo.

    Nel 1985 Freni realizza La famiglia Ceravolo, un film TV tratto dal suo romanzo omonimo (Rusconi Ed., 1980), con con Turi Ferro, Fioretta Mari, Walter Maestosi, Ida Carrara, Maria Cosentino, Mimmo Mignemi, Beba Freni e Dario Di Vincenzo. Il lungometraggio  annoda stilisticamente le membrature piene di rincalzi e particolari memorabili, tipiche della narrazione popolare, a un più accelerato tempo di aggregazione e ridistribuzione della materia, che sorge puro da una manovra sentenziosa, da modi musicalmente atteggiati sulle cadenze della ballata o, talvolta, con forza divisi dagli strappi di una partizione drammatica.

    Ambientato in alcuni paesi “un po’ fatali” dei Peloritani e dei Nebrodi, il film, così come il romanzo, sistema in una luce di metastoria – ma i problemi più pressanti, sociali, economici, politici, entrano da tutte le parti – le vicende di don Luigi, della moglie Costanza e della figlia Assunta. Una condizione immalinconita, venata di riflessione e saggezza, scandisce le scene concedendo una specie di fuga continua di prospettive sì da instaurare subito un crescendo che ha il suo avvio dall’immagine, folgorante nella sua sacralità, del capofamiglia rilevato con immediatezza e forza di tratti: “Don Luigi Ceravolo girò con un movimento lento e solenne lo sguardo verso il paese”. E solennità vuol quasi dire fermo del corso cronologico, vittoria sulla nuda cronaca che si assomma e si sgretola: preme un respiro leggendario e inverte tutti i segni dei visibile terreno, le stagioni contate nei mutamenti obiettivi e nel registro uguale del cuore, i destini degli uomini e l’abbagliante e insieme intristito volto della bellezza: una “idea” contro la storia che sale e reclama le sue ragioni, che pretende di essere il seme e il motore di ogni ora.

    Impastato di cose e avvenimenti, ma anche di miti e fantasie, un corpo di fatti di quel lembo di terra siciliana in cui dalla Prima guerra mondiale agli anni Settanta si svolge la saga della famiglia Ceravolo, emerge appena toccato e subito è trasmesso nelle inquietudini delle figure, come pure dà linfa a un’ottica nuova del paesaggio, alla sua incessante trasformazione. L’elegia di fondo allenta le forme della commozione per farsi drammatica presenza del vero. La Sicilia degli scrittori dell’Ottocento e di Brancati, di Lampedusa, Piccolo, Cattafi e Bonaviri (anzi, molto vicina al vibrato e funereo e colmo splendore de Il Gattopardo, o al visionario animismo dei Canti barocchi, o al simbolico viaggio nelle cose di Marzo e le sue idi, o ancora al geologico e stellare metanaturalismo di Dolcissimo) celebra la sua cruda disperazione e la sua crisi, la sua ancestrale e rustica violenza e la sua morbida estenuazione di occaso nella fiera solitudine di don Luigi, nella rassegnata resa di Costanza alle “mani invisibili, del destino, nella sua stanchezza, anche di decifrare le vecchie ombre della sua felicità, infine, nella malinconia di Assunta che si sente lentamente sradicare, in una terra che non era più terra ma sabbia, dove non bastavano né umore né amore”.

    Questo mondo di vite esiliate si stampa nella fatica dell’uomo nuovo, nell’operosità di chi, come don Luigi, vince le convenzioni e risale la china del riscatto: un’ascesa senza gioia minata dalla sua stessa precarietà, da un ambiguo annuncio di fine.

    Storico di una condanna – quella della borghesia  solitaria nel suo egoismo, intenta a “ripetere il lusso della scomparsa aristocrazia” – Freni usa tecniche di deformazione per seguire il suo eroe, usa il documento e l’indagine antropologica con una volontà di studio che può ricordare Sciascia; affonda, in seguito, lo sguardo nelle pieghe della sua Isola, sconvolge il tempo concreto – e la dimensione favolosa che sale ricorda un po’ le atmosfere allarmate dell’Horcynus di D’Arrigo -, tocca problemi generazionali, urgenze della società e trova tuttavia la cifra più limpida nei momenti in cui trasferisce le registrazioni all’interno di un atto leggero.

Il film ha partecipato al festival di Mosca, Vancouver, Giardini Naxos, e continua ad essere richiesto da numerosi istituti italiani di cultura all’estero per proiezioni e analisi socio-culturali.

GIUSEPPE AMOROSO

Redazione, ASCinema – Archivio Siciliano del Cinema

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