I DIABOLICI (1955). IL CAPOLAVORO NOIR COSPIRAZIONISTA DI H.-G. CLOUZOT

Quando si parla dei grandi film del passato bisognerebbe sempre fare una duplice valutazione, stimandone il valore non solo per la bellezza intrinseca ma anche per l’eventuale influenza esercitata sulle opere successive. Da quando nel 1963 Mario Bava ha dato i natali al giallo italiano – genere che finalmente brillava di luce propria – un profluvio di uscite ha invaso il grande schermo, suddividendosi a sua volta per registri e temi differenti (mystery, thriller, gotico, psicologico, complottistico…).

In particolare, l’onda del sexy-giallo complottistico, che in Italia ha avuto ufficialmente avvio nel 1968 con Il dolce corpo di Deborah di Romolo Guerrieri (sebbene sia possibile individuare tracce di questo sottogenere anche in precedenza), non è in realtà un prodotto davvero autoctono poiché gli autori che l’hanno cavalcata con discreto successo fino agli inizi degli anni ‘70 (Umberto Lenzi in primis) hanno preso in prestito quella configurazione tematico/narrativa tutta francese de I diabolici, capolavoro noir di Henri-Georges Clouzot. Che gli italiani abbiano poi calcato la mano sull’aspetto sentimentale, abbondando con l’intrigo erotico a sfondo ereditario, è cosa ormai risaputa. Ciò che, invece, vale qui la pena sottolineare è quanto l’opera di Clouzot, sviluppata a partire dal romanzo Les diaboliques (1952) dei noti Boileau e Narcejac, sia stata pressoché fondamentale per determinare la nascita di un nuovo sottogenere del giallo, che coniuga elementi noir al thriller di derivazione hitchcockiana. Ma, soprattutto, intreccia con efficacia le dinamiche amorose del classico triangolo “lui-lei-l’altro/a” con quelle della cospirazione ai danni della vittima designata, che sia la moglie, il marito o l’amante!

Qui il triangolo in questione è impersonato dal dispotico e arrogante direttore di un collegio, Michel Delassalle (Paul Meurisse), dalla succube moglie Christina (Vera Clouzot, moglie del regista) e dalla di lui ex amante, la bella e algida Nicole (Simone Signoret). Quest’ultima, anch’essa stufa dell’atteggiamento violento e prevaricatore dell’uomo, cerca di convincere la fragile Christina, sposata unicamente per interesse nonché di salute cagionevole, a mettere in atto un diabolico piano per sbarazzarsene. Il colpo riesce e Michel muore affogato nella vasca da bagno dopo essere stato prontamente narcotizzato. Successivamente, il corpo viene gettato all’interno della piscina della scuola in modo da simulare un suicidio ma qualcosa va storto: il cadavere misteriosamente scompare.

Innegabilmente, chiunque abbia visionato più di un film del genere sopra descritto, il cosiddetto “giallo lenziano”, inizierà da subito ad immaginare i possibili complotti nascosti dietro la trama. In effetti, la probabilità che un film come I diabolici possa stupire al giorno d’oggi è indirettamente proporzionale alla quantità di gialli italiani post ‘68 visionati, in quanto lo spettatore più smaliziato avrà continuamente delle sensazioni di déjà vu. Ma, al netto di quanto sopra, si parla comunque di una delle più grandi opere cinematografiche del brivido mai partorite, con una costruzione della suspense e un senso d’attesa che cresce di fotogramma in fotogramma, sino a deflagrare letteralmente nell’ultimo segmento di visione. Personaggi ambigui (l’affascinante e indimenticata Simone Signoret ed il sagace commissario impersonato da Charles Vanel si impongono decisamente sulla scena), l’ambientazione francese anni ‘50, il bianco e nero che risalta le ombre, suggestioni che lambiscono i contorni dell’horror soprannaturale e la pressoché totale assenza di colonna sonora (espediente questo rivelatosi particolarmente efficace) sono gli ingredienti che concorrono a rendere questo film un’autentica scheggia di paura, corroborato da una delle sequenze più agghiaccianti della storia del cinema e con un gustoso doppio twist finale che getta ancora una volta il dubbio su quanto si è appena visto.

Preso ampiamente a modello nel decennio a venire, I diabolici dopo ben 66 anni conserva ancora intatto tutto il fascino di una pellicola prestigiosa e suggestiva, realmente subdola e “diabolica” e della quale, una volta visionata, si raccomanda vivamente di non riferire alcunché a chi non l’abbia ancora guardata. Dopotutto, è lo stesso regista a scriverlo in sovraimpressione, dopo la parola “Fine”.

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