HAMMER FILM, UNO SGUARDO SUL CINEMA FANTASTICO D’OLTREMANICA

Da quel fatale giorno in cui William Hammer ed Enrique Carreras diedero inizio all’attività della casa di produzione Hammer, la Gran Bretagna attirò su di sé un tenebroso destino cinematografico che l’avrebbe accompagnata fino agli anni settanta inoltrati. Volendo entrare nei dettagli, si scopre che il vero cognome di William era Hinds e che in origine dirigeva una catena di gioiellerie. Era un attore dilettante e ciò spiega il suo ingresso nella distribuzione cinematografica in coppia con un altro appassionato di cinema, ossia Carreras.

    I due intraprendenti personaggi fondarono una compagnia chiamata “Exclusive” e, nel novembre 1934, fu registrato il nome “Hammer”. Il primo film fu The Public Life of Henry the Ninth (1935), considerato abbastanza buono, al punto da essere realizzato poi dalla potente MGM. I primi passi della novella company furono comunque piuttosto malfermi, intralciati dallo strapotere hollywoodiano e dalla contemporanea nascita della TV, ma verso la fine degli anni Cinquanta ci fu l’illuminazione che portò la Hammer al successo: fu deciso di dedicarsi pienamente a coltivare il filone fantastico, ripescando mostri classici e creandone di inediti, con un fervore tale che la nazione Britannica conquistò un primato indiscusso nella produzione di film fantastici. Fino a metà degli anni Cinquanta la Hammer era stata una casa di produzione che non si era differenziata particolarmente dalle altre “companies” inglesi.

    Il colpo di genio avvenne nel 1955 con l’uscita de L’astronave atomica del dottor Quatermass, film tratto dal serial TV di Nigel Kneale uscito in Inghilterra nell’estate 1953. Il film, diretto da Val Guest, è un’opera perfettamente inquadrata nel clima generale del cinema di fantascienza del periodo, ed è indubbiamente molto interessante sia per l’intensa recitazione di Richard Wordsworth nella parte dell’astronauta sottoposto a radiazioni letali al ritorno da un viaggio spaziale, che per quella nervosa e decisa di Brian Donlevy nel ruolo del vulcanico professore. Nella disgregazione corporea dell’uomo, mostruosamente cosciente del proprio disfacimento, c’è l’angoscia e l’insicurezza di quegli anni di guerra fredda in cui il deterrente atomico era l’unica speranza di “pace”. Ci sono dei momenti molto belli come quello dell’incontro con la bambina che ricorda una situazione molto simile al Frankenstein di James Whale o il finale girato nell’Abbazia di Westminster. Lo stesso tema fu ripreso varie volte in seguito, da Il primo uomo nello spazio (1959) a L’uomo di cera (1977) ma mai con l’angoscia esistenziale del film di Val Guest. Il film ebbe un notevole successo tanto che ne venne messo in cantiere un altro capitolo, sempre con le avventure del professor Quatermass ancora una volta interpretato da Donlevy, I vampiri dello spazio, un film da molti ritenuto addirittura superiore al primo, per la sua esplosiva e dirompente carica sociale. Diretto con mano sicura da un ispirato Guest, il film è un grottesco dramma imperniato sul tema dell’invasione della Terra (ma bisognerebbe dire dello Stato) dall’interno. Il complotto che si muove all’interno di una nazione, che mette uno contro l’altro gli stessi concittadini, le stesse famiglie e lo strapotere dell’esercito che si trova ad operare anche contro i civili pur di preservare un bene comune, un segreto comune, è un tema coraggioso, specialmente perché affrontato in un momento di estremo disagio per la fobia dell’invasione che allora si stava vivendo.

    Altri ottimi film fantastici della Hammer L’abominevole uomo delle nevi (1957) di Val Guest, interpretato da Peter Cushing e Forrest Tucker nei ruoli dei due scienziati alla ricerca della mitica creatura. Scritto anche questo da Nigel Kneale, il film è efficacissimo nel cercare un’atmosfera di mistero e di indefinita incertezza che arriva al punto di non mostrare mai (a parte un’immagine appena accennata) il volto della creatura. Fino a questo punto la Hammer aveva saputo imporre una linea produttiva vincente in Inghilterra ma senza arrivare ad espandersi negli Stati Uniti. Ma il film che dette il via alla fortuna della casa di produzione inglese e contribuì alla rinascita dell’horror fu La maschera di Frankenstein (1957). Questo genere era caduto nell’oblio dopo i fasti americani del Frankenstein (1931) di Whale, con l’incomparabile Boris Karloff, il Dracula (1933) di Tod Browning, con l’inquietante Bela Lugosi, e la figliolanza derivatane… mi riferisco alle numerose pellicole incentrate sui due mostri tradizionali e su altre svariate creature poco raccomandabili. La trovata della Hammer fu quella di riprendere l’horror film e di rilanciarlo in una veste più commerciale, in particolar modo puntando sul binomio erotismo e terrore, due elementi chiave per risvegliare le emozioni del pubblico. La presenza femminile diviene immancabile, spesso vittima, più raramente carnefice. La ripresa dell’horror americano non avvenne affatto in maniera passiva e, oltre all’aspetto allusivamente erotico, l’impronta della Hammer si riconobbe anche nel tocco auto-ironico che presentarono sempre i suoi film.

    Hammer e Carreras coinvolsero parenti ed amici nell’impresa: Anthony Hinds, figlio del primo, fu una figura potente dietro le quinte continuando il lavoro del padre; il figlio ed il nipote di Carreras, invece, divennero parte attiva nella creazione dei film. Il regista più rappresentativo della Hammer e dell’epoca fu l’assai prolifico Terence Fisher, autore di innumerevoli pellicole su Dracula, Frankenstein, dott. Jeckyll, mummie, strangolatori, licantropi, fantasmi, spettri, invasori extraterrestri e chi più ne ha più ne metta. Il primo mostro ad essere risvegliato dal letargo cinematografico fu il Frankenstein, creazione letteraria di Mary Shelley (1818). Nel 1957 la Hammer produsse La maschera di Frankenstein, con la regia di Fisher e le interpretazioni di Christopher Lee e di Peter Cushing, dando vita ad un’accoppiata cinematografica decisamente vincente. Entrambi gli attori divennero, negli anni successivi, dei frequentatori abituali degli horror, creandosi una fama e una reputazione di culto presso gli appassionati del genere. La sceneggiatura fu affidata a Jimmy Sangster che, insieme al truccatore Roy Ashton, allo scenografo Bernard Robinson, al musicista James Bernard e al direttore della fotografia Jack Asher, fu un collaboratore assiduo di Fisher. La critica condannò questo film, bollandolo come sadico; in realtà la violenza esplicita presente nei prodotti della Hammer non era puro compiacimento, bensì una veritiera ed inedita, per l’epoca, rappresentazione dei lati negativi come la brutalità o audaci come la sessualità. Il pubblico apprezzò ed il successo conseguito garantì l’immediata realizzazione di La vendetta di Frankenstein (1958), con il medesimo gruppo di tecnici. Fisher firmò cinque pellicole sulla saga della gigantesca creatura, tra cui Distruggete Frankenstein! (1969) e Frankenstein e il mostro dell’inferno (1973); la prima è rilevante perché mise in risalto il lato umano del mostro, avvicinandosi molto all’originale caratterizzazione della Shelley; la seconda fu l’ultima pellicola diretta da Fisher.

    Altri registi britannici diedero il loro contributo ad arricchire il numero delle fantasiose avventure di Frankenstein, una volta esaurite quelle immaginate dalla sua autrice… Jimmy Sangster girò nel 1970 Gli orrori di Frankenstein e, nel medesimo anno, Jack Smight realizzò Frankenstein: la vera storia, con James Mason, Michel Sarrazin, Leonard Whiting e Jane Seymour. Quest’ultima pellicola venne inizialmente girata per la TV, poi fu ridotta a 123’ per la distribuzione cinematografica. Proseguendo nella sua ricerca e scoperchiando altri oscuri avelli nella cripta delle nostre ataviche paure, l’infaticabile Hammer, nel 1958, rinverdì le glorie di un altro grande tra gli esseri terrificanti: Dracula. Il perverso conte transilvano permise di accentuare la caratteristica Hammer di puntare sull’horror di sapore erotico. Ciò si realizza nel momento in cui il vampiro avvista la sua avvenente vittima, la attira a sé con il suo sguardo magnetico e, al posto dello svenevole abbraccio amoroso, si ha il mortifero abbraccio di sangue. Dracula il vampiro venne diretto da Fisher e il sanguinario principe della notte venne impersonato da Christopher Lee, accanto a Peter Cushing nel ruolo di Van Helsing. Lee caratterizzò fortemente il vampiro dal punto di vista umano: il suo Dracula presentò una dimensione meno soprannaturale rispetto ai suoi predecessori (Bela Lugosi, ecc.) e puntò molto sul fascino, sul potere seduttivo in grado di ammaliare avvenenti vittime femminili. Si manifestò, inoltre, una sorta di recitazione ironica, volta a sottolineare la natura irreale del personaggio. L’invenzione degli spaventosi canini appuntiti fu opera di Lee, che così si dimostrò molto calato nella parte mentre la musica di Bernard si rivelò di notevole impatto, molto evocativa. Il medesimo regista realizzò Le spose di Dracula (1960) dove si evidenzia maggiormente la carica erotica anche perché al conte Dracula vengono offerte esclusivamente prede femminili da una sua adepta, la baronessa Meinster interpretata, da Martita Hunt, una delle migliori interpreti femminili della Hammer, e Dracula principe delle tenebre (1965); quest’ultimo, seguito di Dracula il vampiro, inizia con alcune scene del suo precedente e narra le vicende di due incaute coppie di turisti che visitano il castello del vampiro nei Carpazi, cadendo inesorabilmente nella spirale di terrore creata dal conte. Una delle scene più raccapriccianti vede Dracula tagliarsi un’arteria dal petto per abbeverare una vampira, immagine ripresa fedelmente dal padre letterario, Bram Stoker (1987). Ovvio protagonista: Christopher Lee, accanto a Barbara Shelley; la sceneggiatura fu opera di Jimmy Sangster, il quale lavorò così bene che Lee rifiutò le battute assegnategli e si limitò ad emettere solo urla terribili (Sangester, nei titoli di coda, usò un nome falso, come strategica copertura all’insuccesso dei suoi dialoghi). Aldilà della cilecca verbale di Sangster, l’idea della Hammer di far risorgere il conte fu vincente e nel giro di pochi anni il leggendario pipistrello divenne una acclamata star: il solo Lee lo interpretò ben quattordici volte, senza contare altri emuli e discendenze. Curioso è Il mistero del castello (1964) diretto da Don Sharp, un regista specialista in thriller, perché è il primo film di vampiri della Hammer senza il personaggio del conte Dracula. I vampiri del film saranno annientati nel finale da comuni pipistrelli. Nel 1968 uscì Le amanti di Dracula di Freddie Francis, girato nei mitici Studios Pinewood, prodotto dalla Hammer, con colonna sonora di Bernard. Lee stavolta veniva osteggiato da una strana coppia: un anziano monsignore ed un giovane ateo, fidanzato con la nipote del religioso. Inquietanti primi piani indicavano la fonte seduttiva del conte: pupillone iniettate di sangue che privavano la vittima (donna) di ogni volontà propria e ne facevano preda del famelico. Questo film presentava anche una citazione dotta: la scena della carrozza nera di Dracula, lanciata in una febbrile corsa dal galoppare sfrenato di bruni cavalli, ornati da lugubri pennacchi scuri venne presa dal Nosferatu di Murnau (1922), allucinante e spaventoso capostipite della cinematografia vampiresca. La pellicola di Francis termina con la prevedibile morte del sanguinario essere, trafitto da una croce, simbolo a lui contrapposto abitualmente, insieme a olezzanti collane d’aglio e acuminati paletti di legno da conficcare con vigore nel suo cuore.

    Altri registi della factory Hammer si cimentarono con il mito di Dracula, tra i migliori sicuramente Roy Ward Becker che nel 1970 diresse Il marchio di Dracula che contiene molti riferimenti al precursore Fisher; molto piacevoli, invece, sono i tentativi pop di Alan Gibson nel ricreare l’ambiente barocco della swinging London con, 1972: Dracula colpisce ancora e I satanici riti di Dracula girati entrambi nel 1972. L’aspetto più interessante del dittico è la trasposizione ai giorni nostri del principe delle tenebre dove Dracula diventa una sorta di spietato capitalista, a capo di una multinazionale. Indubbiamente più interessanti sono i film vampirici in cui il personaggio principale è di sesso femminile. Vampiri amanti (1970) di Jimmy Sangester e Mircalla, l’amante immortale (1971) di Roy Ward Becker,  sono entrambi ispirati al macabro ed affascinante racconto Carmilla di Joseph Sheridan Le Fanu, scrittore irlandese autore di stupende ghost-stories. In questi film il tema del vampirismo incontra l’erotismo di stupende succhiatrici di sangue come Ingrid Pitt nel primo e Yutte Stensgaard nel secondo, mentre il ruolo della vittima, è in entrambi i casi affidato all’ingenua Pippa Steel. L’aspetto erotico si esalta nel morboso rapporto saffico tra Mircalla/Carmilla/Marcilla e le sue vittime, forse mediato in questi casi dal cinema horror italiano dove la componente omoerotica era spesso esaltata. Molto bello è La morte va a braccetto con le vergini (1971) di Peter Sasdy che narra la storia della contessa Elisabeth che procrastinava la sua gioventù immergendosi nel sangue di giovani vergini. La vicenda è ovviamente quella di Elisabeth Bathory, nobile magiara realmente vissuta nel secolo XV e che fu condannata per gli atti narrati nel film. Nel ruolo della contessa c’è ancora una volta la sensualissima Ingrid Pitt. La fine del decennio corrisponde al declino definitivo del principe delle tenebre, ormai bisognoso di un sonno ristoratore dopo tanti anni sulla breccia.

    La sua popolarità, tuttavia, ha lasciato bizzarre tracce in Gran Bretagna: anni fa esisteva a Londra la “Dracula Society” (e c’è ancora!), con sede in Wellington Street. Inoltre è tuttora possibile seguire un itinerario nella capitale che ripercorre i luoghi frequentati da Bram Stoker tra cui il Lyceum Theatre, in cui lo scrittore si incontrava con l’attore Henry Irving; St.George Square, dove Stoker abitava al momento della morte, fino ad arrivare al cimitero di Golders Green, in cui è sepolto. Oltre ai classici Dracula e Frankenstein, altri mostri infestano le sale cinematografiche inglesi nel periodo Sessanta-Settanta, perlopiù spalleggiati dalla Hammer, costante punto di riferimento per l’anglo-horror.

    La coppia Hammer-Fisher si involò attraverso suggestioni esotiche con La mummia (1959): Christopher Lee era il principe Kharis, vittima di un crudele taglio di lingua e di una orribile sepoltura in un claustrofobico anfratto. Evviva le resurrezioni e le vendette! Nel 1960 fu prodotto Il mostro di Londra, storia tratta dal romanzo di Robert Louis Stevenson Lo strano caso del dottor Jekyll e del signor Hyde, e Il fantasma dell’Opera (1962), con riferimento all’opera letteraria di Gaston Leroux (1911). Il fecondo 1960 vide anche la realizzazione de Gli strangolatori di Bombay, horror Hammer-Fisher ambientato in India. La nota sanguinaria era data dalla spietata setta dei Thugs, gli strangolatori che uccidevano in nome della dea Kalì. Anche qui, come già ne La mummia, si potè assistere ad un taglio, anzi, un duplice taglio di lingua, con annessa estrazione di occhi dalle orbite: pena subita da due incauti Thugs che avevano depredato una carovana per fare bottino personale, non da spartire con la setta. Ma veniamo ai macabri dettagli. Una volta scoperti, i due furboni vengono condannati dal sacerdote di Kalì, seviziati nella maniera suddetta e gettati in due gabbie a sopravvivere selvaggiamente. Dopo pochi giorni, generosamente, la loro ormai miserevole esistenza fatta di buio e silenzio viene terminata (sempre in onore di Kalì). I due disgraziati vengono strangolati e gettati in una fossa comune, non prima però di essere stati sventrati onde evitare fastidiosi rigonfiamenti post-mortem. Il film ebbe come protagonista Guy Rolfe e si avvalse del commento musicale di James Bernard. Nel contesto dei film horror con mostri inediti si inserirono La donna serpente di Sidney Furie (1960) e La morte arriva strisciando (1965), di John Gilling, esempi sul tema della metamorfosi. Terence Fisher girò nel 1963 Lo sguardo che uccide, riprendendo la mitologica figura della Medusa o Gorgone, spaventoso essere femminile anguicrinito, dall’occhio che impietriva i malcapitati che lo incrociavano. L’anno successivo Michael Carreras diresse Il mistero della mummia, descrivendo le vicende di una mummia egizia che viene esibita in giro per il mondo da uno sfacciato impresario americano… Tutto ciò fino al risveglio dal suo millenario sonno e al successivo massacro.

    Nel contesto britannico non-Hammer ma comunque emulativo (Planet Film Productions), mostri da un altro pianeta vennero richiamati nel 1967 da Fisher per La notte del grande caldo, in cui Cristopher Lee e Peter Cushing si trovarono a fronteggiare una inusuale ondata di calore che aveva colpito l’isoletta su cui risiedevano. L’alta temperatura era stata provocata da invasori extraterrestri, che ne abbisognavano per sopravvivere. Il voler rincorrere a tutti i costi alle nuove tendenze del fantastico americano, portò la Hammer a qualche insuccesso commerciale di troppo. Le produzioni diminuirono e vennero provate contaminazioni che in alcuni casi risultarono anche di notevole valore. Pensiamo a La leggenda dei sette vampiri d’oro (1974) diretto da Roy Ward Becker, dove il mito del vampirismo viene trasferito in Cina. Prodotto insieme alla Shaw Brothers Studio di Hong Kong, il film vede Peter Cushing, nel consueto ruolo di Van Helsing, arruolare un manipolo di cinesi cultori di arti marziali per piegare dei crudeli vampiri orientali.

    Già i dirigenti della casa di produzione inglese avevano spostato la loro attenzione nei confronti della televisione, e l’insuccesso dei due film girati ad Hong Kong (l’altro fu Shatter, diretto da Michael Carreras nel 1974), costrinsero la Hammer ad una repentina chiusura. L’ultimo film fantastico girato fu Una figlia per il diavolo girato nel 1976 da Peter Sykes e tratto da una storia di Dennis Wheatley che fu il primo film importante di Nastassja Kinski, nella parte di una ragazza consacrata a Satana.

    Dopo questo film la Hammer continuò la produzione di telefilm girati da molti dei suoi registi favoriti come Peter Sasdy, Alan Gibson o Don Sharp; nacquero così le serie televisive Racconti del brivido (Hammer House of Horror, 1980) e L’ora del mistero (Hammer House of Mystery and Suspense, 1984). Purtroppo, con questi ultimi lavori per la televisione, la casa inglese terminò definitivamente la produzione. Non è un caso che la fine della Hammer coincise con la grande stagione del cinema splatter,  del gore e del new horror; un modo di girare tanto, troppo diverso da quello proposto dalla casa britannica.

ALESSANDRA MORO E GIAN LUCA CASTOLDI

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