FRIEDRICH WILHELM MURNAU E LE ZONE SEPOLTE DELL’INCONSCIO

Questo genio dell’arte filmica è la punta di diamante dell’espressionismo cinematografico tedesco. Nei suoi film è nitidamente sviluppato il senso degli spazi, angusti o aperti che siano e i motivi principali della sua opera sono lo sdoppiamento e il percorso di personaggi che fanno affiorare le zone sepolte dell’inconscio.

    Il talento di Murnau è così ben solido e radicato, che quando l’artista sarà chiamato in America a dirigere i suoi ultimi film, la sua arte non ne sarà minimamente intaccata. Anzi, egli sarà capace di piegare le consuetudini della cinematografia americana alle sue eccezionali capacità espressive.

    Murnau nasce in Germania nel 1888. Come gran parte degli artisti del muto tedesco, egli comincia il suo tirocinio alla scuola di Max Reinhardt. Già dagli inizi della sua attività cinematografica, nel 1919, si possono ravvisare spiccate propensioni per il fantastico in film come Il ragazzo in blu, al cui centro della vicenda c’è un vecchio castello maledetto, e Satana, ambedue del 1919. Quest’ultimo, diviso in tre episodi, è intriso di una specie di satanismo deteriore, in cui si intrecciano i temi dell’amore, del sangue e della follia. Ma tra questi primi film spicca La testa di Giano (1921) che introduce, per la prima volta nel suo cinema, il tema dello sdoppiamento. In tali opere si avverte la ricerca di una grammatica degli spazi che più tardi porterà Murnau a stupefacenti risultati. Il castello di Vogelöd (1921) è un racconto del mistero denso di tensione, una sorta di giallo espressionistico che richiama il romanzo gotico, in cui Murnau si avvale della sceneggiatura di Carl Mayer. Ma il più celebre film di Murnau viene realizzato sempre nel 1921, quel Nosferatu il vampiro considerato ancora oggi un caso a sé nella storia del cinema dell’orrore. Cupo oltre ogni limite e veramente terrificante nella sua rappresentazione del Male assoluto, esso codifica una volta per tutte le regole dell’horror psicologico. I film immediatamente seguenti come Fantasma (1922) e Le finanze del granduca (1923), sceneggiato da Thea von Harbou, fanno parte del complessivo discorso per immagini di Murnau, il quale cerca di decifrare l’enigmaticità del mondo, di scoprire l’ermeticità dell’essere umano. A questo proposito, Murnau ha scritto: “Amo la realtà delle cose, ma mai senza aggiungervi della fantasia; bisogna che l’una si sovrapponga all’altra. Non avviene forse così nella vita, con tutte le reazioni umane e le nostre emozioni?”.

    L’ultima risata o L’ultimo uomo (1924) costituisce un’altra tappa fondamentale nella carriera di Murnau e nella maturazione del linguaggio del cinema muto (non solo tedesco), anche per il superbo apporto del fotografo Karl Freund. Narrando la progressiva degradazione di un fattorino d’albergo (un immenso Emil Jannings), Murnau si pone in antitesi all’esoterismo dei suoi film fantastici. L’ultimo uomo si rifà al teatro da camera di Max Reinhardt, il cosiddetto Kammerspiel, in cui la vita quotidiana viene descritta in modo realistico e dettagliato. Il film fa così parte di quella ristretta cerchia appartenente al Kammerspielfilm, in cui viene raccontato tutto per immagini, senza ricorrere ad alcuna didascalia. La degradazione umana che permea L’ultimo uomo è comunque raccontata in tono angoscioso e fatalistico, tipico del miglior Murnau. Prima di approdare in America, il regista, realizza Tartufo (1925) tratto da Molière e, soprattutto , Faust (1926), basato sull’opera di Goethe, una specie di ricapitolazione del cinema espressionista. Raccontando la celeberrima vicenda dello scienziato Faust che vende l’anima a Mefistofele, Murnau mette insieme una serie di immagini mozzafiato che fanno del film un poema di chiaroscuri in cui, ancora una volta, la personificazione del Male torna a minacciare il mondo. Approdato in America, Murnau realizza un altro capolavoro che negli anni successivi conoscerà una rivalutazione sempre più accentuata. Si tratta di Aurora (1928), la vicenda (apparentemente molto semplice) dell’amore tra un uomo e una donna che rischia di dissolversi a causa di una donnaccia e di una tempesta , simbolo della natura ostile: il tutto raccontato in un’atmosfera di grandissima suggestione.

    Murnau porta a termine il suo ultimo film, Tabù (1931), insieme al grande Robert Flaherty, anch’egli amante dei grandi spazi e fautore di documentari purissimi, di forte impatto visivo. Tabù è un inno di grande sensibilità estetica alle bellezze della natura e all’amore giovane e fatale. Con quest’opera finale, Murnau ci consegna il nodo problematico della sua parabola psicologico-esistenziale, della sua innata eccentricità di uomo e di artista e del suo desiderio di evasione. Quando muore in un incidente automobilistico nel 1931, egli porta prematuramente con sé i segreti quasi imperscrutabili della sua arte.

PINO BRUNI

ASCinema – Archivio Siciliano del Cinema

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