Tanti sono i film, italiani ed esteri, che hanno rappresentato questa tematica, mai del tutto sopita, e che in queste settimane è nuovamente fonte di accesi dibattiti. Mi limiterò a citarne due, diretti da registi dai profili piuttosto diversi.
La richiesta di cinquanta chili d’oro da parte dell’invasore nazista ed il conseguente rastrellamento degli ebrei romani, avvenuto il 16 ottobre 1943, vengono raccontati da Carlo Lizzani ne L’oro di Roma, film del 1961.
Prodotto dalla UFA, la grande casa cinematografica tedesca degli anni venti, Faust di Friedrich Wilhelm Murnau si rifà alla grande tradizione culturale germanica. Il regista deve stavolta fare i conti con la potente e notissima metafora contenuta nel capolavoro di Goethe, nel quale lo scienziato Faust fa un patto col diavolo (Mefistofele) a cui darà la propria anima in cambio della giovinezza.
L’imborghesimento della “classe operaia” è stato un tema più volte rappresentato nel nostro Cinema, inevitabilmente suscitando accesi dibattiti.
Michelangelo Antonioni ne Il grido (1957), ad esempio, narra la storia di due amanti, Aldo (Steve Cochran), operaio in una fabbrica ed Irma (Alida Valli), sposata ad un uomo emigrato all’estero da diversi anni. Alla notizia della morte del marito di Irma, Aldo vorrebbe sposarla, ma lei gli confessa di amare un altro uomo.
Iniziò tutto da qui. La pellicola che diede ufficialmente i natali a un genere tutto italiano il quale, almeno per l’intero decennio successivo, avrebbe avuto prolifica e fortunata vita. La nascita del giallo all’italiana coincide, storicamente e stilisticamente, proprio con questo lavoro firmato Mario Bava, l’ennesimo colpo di genio di un deus ex machina che, letteralmente, con pochi mezzi ma tanta inventiva creava opere di bellezza straordinaria.
Per “neorealismo rosa” – termine coniato dalla critica – si intende un momento di transizione, per cui il cinema neorealista – pur conservando alcuni suoi canoni etici ed estetici – si trasforma, sentendo il bisogno di rinnovarsi. Si comincia, così, a guardare al costume degli italiani, non più oppressi dalla guerra militare e civile, e ad attingere a trame sentimentali. È una fase molto interessante perché anticipa, preparandone le basi, la commedia all’italiana che avrebbe poi imperato per parecchi anni.
Il gruppo di rivoluzionari e guerriglieri del MRNA, la cui mente è tale Christine (Sasa Kastoura), dopo una serie di furti in giro per l’Europa, decide di agire anche nella capitale greca. Christine seduce George (Andreas Barkoulis) senza remore, guardia giurata di un casinò molto famoso, il Mont-Parnes, in cambio di sesso e soldi. Il vigilante fornisce a Christine una mappa precisa che illustra il sistema di allarme e di evacuazione del casinò.
La banda agisce, e dopo aver svuotato la cassaforte asportandone un imponente patrimonio e dopo l’arresto di uno dei banditi trovato con metà della somma, decide di rapire il figlio del Capo della Squadra politica di Atene, per poter ottenere agevolmente l’espatrio e il denaro sequestrato.
Il Commissario (Lakis Komninos) simula accondiscendenza al ricatto e raggiunge i malviventi all’appuntamento prestabilito, accompagnato capo della banda immobilizzato, ma gli eventi precipitano.
Nonostante la vicinanza geografica e la comune cultura mediterranea, ben poco filtra della cinematografia proveniente da Oltreionio. S.S. Sezione sequestri (1976), ossia Oi apanthropoi (titolo originale), è un’eccezione che strizza l’occhio ai poliziesci italiani e americani coeve, ma con risultati appena accettabili, considerando l’attenuante dello sforzo di Pavlos Filippou, che dirige con polso ma con scarse risorse tecniche e professionali, miscelando i quattro elementi tipici del pulp ellenico anni ’70: mare, thriller, eros e azione.
ANTONIO LA TORRE GIORDANO
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Il barone Corofax (Peter Cushing), a capo di un’antica religione, scatena il caos nei Balcani plagiando ed inducendo un intero villaggio a estremi rituali notturni offerti ad un minotauro di pietra, tra le rovine di un castello ellenico. Solo i bambini locali sfuggono alla religiosità malsana sulla base del fatto che sono incorruttibilmente innocenti. Gran parte del racconto verte sulla disputa di chi verrà scelto per primo, la cui vita sarà devoluta al monolito.
Figure incappucciate elaborano incantesimi in uno scenario inquietante prima che il loro idolo invii loro segnali da decriptare. Il regista si conforma agli standard del periodo dotando il demone di genitali e facendo copulare ampiamente i giovani partecipanti prima di cadere vittima dei custodi del diavolo, ammantati di nero e di rosso.
L’andazzo muta quando un prete irlandese (Donald Pleasence) che brandendo una croce e distribuendo spruzzi d’acqua santa sugli eretici e sul loro feticcio, provoca un’esplosione che sparge frattaglie sanguinolente e macerie su tutto il set. L’aspetto migliore del film è la partitura musicale di Brian Eno, con un suono psichedelico già diffusissimo nel decennio antecedente.
Opportunamente, la musica di Eno ha anche arricchito l’esordio alla regia per un lungometraggio di Derek Jarman con Sebastiane (1976). Kostas Karagiannis, noto anche come Dacosta Karayan, Karayannis e Carayannis, ha studiato in Francia prima di diventare uno dei registi greci più prolifici di prodotti commerciali. Il film cavalca la fase finale della migliore stagione del genere horror, il ventennio dei Sessanta e Settanta, ed in questa co-produzione greco-anglo-americana, Peter Cushing, icona del cinema fantastico d’oltremanica, per una volta non calca un set della Hammer, Amicus, Tigon o Tyburn, le Case di produzione britanniche più prolifiche e feconde in quell’ambito e in quegli anni.
ANTONIO LA TORRE GIORDANO
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