CARL THEODOR DREYER E LA CONCEZIONE FATALISTA DELLA SETTIMA ARTE

Grazie a questo eccelso maestro, il cinema danese brilla come un astro di prima grandezza nella galassia del cinema mondiale. All’opera di Carl Theodor Dreyer si potrebbe attribuire un valore che cresce con ritmo esponenziale al passare del tempo.

    La rivalutazione del suo cinema ha avuto luogo negli ultimi decenni con un’accelerazione fortissima che ha fatto aumentare vertiginosamente la considerazione per la sua arte. La carriera di Dreyer, abbastanza ricca di film nel periodo muto, rallenta notevolmente col diradarsi delle opere dopo I’avvento del sonoro. I suoi lungometraggi parlati si contano sulle dita di una mano e appaiono a circa una decina d’anni di distanza l’uno dall’altro. Le ragioni di questi lunghi intervalli di tempo risiedono nel fatto che il maestro non viene capito subito poiché l’incisività del suo cinema austero, spoglio, rigoroso, talvolta lugubre, è forse troppo in anticipo sui tempi. In questo senso, lo stile personalissimo e denso di inquietudini mistico-religiose di Dreyer lo pone in un’aura di magnifico isolamento. Il corpus cinematografico dreyeriano, stracolmo di riferimenti figurativi, è collocato come in una palla di vetro inintaccabile che sembra sfidare le prassi consuete del cinema, ponendosi in un certo senso al di fuori dal tempo. Solo pochissimi sono riusciti a creare un universo cinematografico altrettanto potente e invulnerabile allo scorrere dei decenni.

    Durante tutto l’arco della sua carriera, Dreyer realizza opere prevalentemente ambientate in un Medioevo fosco e palpabile, ma allo stesso tempo altamente stilizzato, con scenografie spoglie, funzionali ai tornenti dei personaggi che vi si aggirano, ritratti con estremo distacco. Considerando la peculiarità della sua arte visiva e problematica, è opportuno citare le frasi dello stesso Dreyer. “…A mio parere la forma d’arte più perfetta è l’architettura, perché non è un’imitazione della natura, ma un puro prodotto dell’ immaginazione dell’uomo. In tutta la grande architettura, il più piccolo dettaglio è definito e calcolato in modo da fondersi con l’insieme… Così è nel cinema: solamente quando tutti gli elementi artistici di un film sono stati così intimamente fusi che anche uno solo non possa essere tolto o modificato senza rovinare l’insieme, allora il film può essere paragonato a una piccola architettura.” Altra significativa testimonianza dreyeriana (che anticipa la poetica di Ingmar Bergman) può essere la seguente: “Non c’è nulla al mondo che possa essere paragonato al volto umano. È questa terra che non ci si stanca mai di esplorare, una terra di particolare bellezza, sia che possa essere severa o dolce.

    Nei tempi del muto, Dreyer porta a termine diversi film che già indagano a fondo su problemi esistenziali e sono venati da una forte concezione fatalistica. Il suo esordio nella regia avviene nel 1919 con Præsidenten, un film che indaga sul caso di coscienza di un magistrato; dopodiché nel 1920 Dreyer affronta per la prima volta il fantastico con Pagine dal libro di Satana, film a episodi che illustra la presenza di Satana nel mondo durante diverse epoche. Fra i film successivi, è da ricordare Prtistcinkan (La vedova del pastore, 1920), dt produzione svedese, storia venata d’ironia che vede un giovane luterano adeguatosi alla tradizione sposare una donna anziana e assumere la sua fidanzata come domestica. Del 1922 è Gli stigmatizzati (di produzione tedesca), storia di un villaggio russo ai tempi della rivoluzione del 1905, realizzato con grande fascino figurativo. Michael, del 1924, è permeato di sottile finezza psicologica e intimistica nel trattare, nel tono distaccato tipico di Dreyer, la storia di un vecchio pittore ingannato da un giovane modello che aveva accolto come un figlio. Il film, anch’esso realizzato in Germania, si avvale della fotografia di due maestri come Rudolph Maté e Karl Freund. Nel 1928 la carriera di Dreyer viene segnata da un film cruciale che basterebbe da solo a porlo nell’empireo dei massimi artisti cinematografici. Ci si riferisce a La passione di Giovanna d’Arco (prodotto in Francia), film sommo che, pur essendo muto, riesce ad essere, con le inquadrature mozzafiato dei visi umani, della massima eloquenza nel narrare con toni tragici il famoso processo alla “Pulzella di Orléans”. Il film,come del resto gli altri che seguiranno, si presta in modo stupefacente ad esprimere le tensioni morali e religiose del regista. Nel 1931 compare Vampyr ou l’étrange aventure de David Gray, di produzione franco-tedesca, film dell’orrore così personale da non assomigliare a nessun altro film del genere né anteriore né posteriore, a dimostrazione che la palla di vetro dreyeriana possiede vita propria e non viene minimamente scalfita nemmeno quando si tratta di esplorare l’orrore puro, genere considerato minore dalla critica cinematografica. Il solitario percorso di Dreyer prosegue con film eccezionali come Dies irae (1943), lugubre e crudele vicenda medievale di stregoneria (uno dei temi preferiti dal regista); Ordet – La parola (1955), tratto dal dramma di Kaj Munk, celebre per la scena della resurrezione finale, realizzata con una tale potenza mistica e figurativa da risultare credibile anche al più scettico degli spettatori. L’ultimo film di Dreyer, il suo addio al cinema, è Gertrud (1964), in cui si riassume la sua genialità artistica nel raccontare splendidamente la storia di una donna che, piuttosto che rinunciare al suo amore ideale per ripiegare su di un uomo che non ama, sceglie la solitudine.

    Il cineasta danese scompare nel 1968 senza essere riuscito realizzare il film su Gesù di cui ha scritto la sceneggiatura, unica preziosissima testimonianza che ci rimane di quello che doveva essere, secondo le sue stesse parole, il film della sua vita. Dreyer è uno dei pochi, autentici titani della settima arte, un artista nel senso più pieno dell’espressione, mai sceso a compromessi con la corrente produzione cinematografica la quale, al cospetto del suo cinema, non solo ha poco a che fare, ma è costretta a inchinarsi.

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