OTTO PREMINGER, UN REGISTA VISIONARIO

Nato a Vienna il 5 dicembre 1905, laureato in giurisprudenza, nel cinema dal 1932 (in Austria); negli USA dal ’34, filmografia molto articolata. Otto Preminger, uno dei grandi tedeschi di Hollywood che, con Ernst Lubitsch, Fritz Lang e Joseph L. Mankiewicz, hanno fatto il cinema americano. Focus su Operazione Rosebud (1975), una delle ultime opere, realizzato in Corsica. Rosebud, alias “bocciolo di rosa”, termine chiave ed enigmatico di Quarto potere (1949) (Citizen Kane) di Orson Wells.

  “Il soggetto del film io l’ho prso da un romanzo di Joan Hemingway, la nipote di Ernest Hemingway. Nel romanzo, “Rosebud” è il nome di uno yacht di cui di cui è proprietario uno degli uomini più ricchi del mondo; costui ha una nipote che, insieme a quattro amici, viene rapita proprio a bordo di questo yacht e il film gira tutto attorno a questo rapimento; in modo particolarmente affannoso. In genere non faccio domande ai miei… personaggi, ma chissà, potrebbe anche darsi che lo yacht-man del mio film abbia battezzato “Rosebud” la sua barca proprio in omaggio a Kane, che era milionario come lui. O in omaggio a Orson Wells di cui, forse, era ammiratore”.

  Uno dei film a ridosso della chiusura della sua carriera, fa optare Preminger per il romanzo di  Joan Hemingway, e ci si chiede il perché.

  “Ero in Francia, l’estate scorsa, e stavo sorvegliando la costruzione della mia nuova casa; qualcuno, non ricordo più chi, mi mandò il manoscritto del romanzo, non ancora stampato. Lo lessi, mi convinse e iniziai immediatamente le trattative per l’acquisto dei diritti di riduzione cinematografica. Feci bene perché, subito dopo, il libro fu pubblicato in Europa e adesso è un best seller. Ecco, so dirle “come” ho scelto quel romanzo per farne un film; non saprei dirle, invece, “perché” l’ho scelto. Non so mai dire perché scelgo questo o quel soggetto. In genere è solo per istinto. Scelgo i soggetti, i temi, le storie che fanno scattare dentro di me la molla dell’interesse. Per motivi che spesso non mi sono chiari e che, ad ogni modo, non so mai spiegare. Con la speranza, però,che l’interesse che suscitano in me sia condiviso, dopo, anche dagli spettatori. Perché il cinema si fa per gli altri, non per se stessi. Da un po’ di tempo, comunque, tra i miei criteri di scelta, c’è l’attualità. Vivo nel XX secolo e sento che preferisco ogni giorno di più le storie di oggi, anziché quelle del passato”.

  All’interno della narrazione di Operazione Rosebud vi è contenuto un rapimento e di un percorso che ruota a questo fatto in “modo particolarmente affannoso”. Proviamo a chiarire se vi sono inclusi elementi di thriller o suspense, come già visti in tanti film di Preminger: Vertigine (1944), Anatomia di un omicidio (1959), Bunny Lake è scomparsa (1965)…

  “Vertigine, giusto nel ’44, è stato il mio primo e vero successo al cinema. E tutti, dopo, mi proponevano delle storie di suspense, convinti che fosse il genere più confacente alla mia regia. Debbo riconoscere, che, più d’una volta, ho avuto la tentazione di accettare, ma poi ho quasi sempre resistito. Uno dei miei principi è di variare il più possibile il genere di film che faccio. Non mi piace ripetermi, soprattutto se con questo o quel genere ho avuto fortuna. La leggo come una forma di pigrizia o d’immaginazione.

  Quasi tutti i miei film sono tratti da romanzi; lì è facile trovare moltissimi spunti interessanti. Una volta, però, acquistati i diritti, non mi faccio mai mettere le briglie al collo dal testo che ho scelto: lo adopero come punto di partenza, ma il più delle volte lo riscrivo quasi interamente. E con la massima libertà; seguendo l’ispirazione come guida in quell’istante. Questo perché non mi interessa affatto adattare un libro, o, peggio, fare l’illustratore di un romanzo per il cinema. Un testo mi interessa per “ricrearlo” sullo schermo, tenendo ben presente che il cinema è un mezzo di comunicazione totalmente diverso dalla letteratura. È quello che ho fatto con Operazione Rosebud, del resto: una riduzione che non può certo definirsi infedele, ma che è assolutamente libera, diversa, com’è diverso un libro da un film”.

  Il Maestro è molto accorto nel riformulare il romanzo ispiratore, ma circa il reclutamento degli attori: attraverso quali canoni e criteri opera le sue scelte?

  “L’istinto l’ho sempre considerato tra i maestri migliori. Così accade per la composizione del cast, che poi è il medesimo meccanismo della scelta dei soggetti. Spesso, quando comincio a scrivere una sceneggiatura ho già in mente certi attori: per questa o quella parte. Spesso, però, le facce, i nomi mi vengono in mente solo mentre sto scrivendo, insieme con i caratteri dei personaggi, pensando, studiando certe loro reazioni. Altre volte, invece, finita una sceneggiatura, mi restano parecchi personaggi ancora “in bianco” che attendono, vicino, il nome di chi dovrà interpretarli. Allora guardo tutti i pacchi di fotografie che ho in casa o vado al cinema o a teatro: per avere delle idee, dei suggerimenti”.

  Preminger nasce in teatro, è stato allievo di Max Reinhardt. È opportuno comprendere a fondo quali differenze egli ritenga ci siano tra la regia teatrale e quella cinematografica.

  “Il clima tra i due ambienti è la sola difformità tra teatro e cinema, a mio parere. Nessun’altra, per ciò che mi riguarda. Credo che il vero problema, sia in teatro che nel cinema, si riassuma in una sola parola: honesty, onestà! Non si può barare quando si mette in scena qualcosa, sia su un palcoscenico, sia sullo schermo. Vorrei ricordare che c’è un’altra differenza, in effetti, e manco tanto piccola. In teatro, appena il regista volta le spalle, i suoi attori, senza che lui possa farci nulla, possono mandare per aria in un minuto tutte le sue fatiche, dimenticando i suoi consigli, travisando le intonazioni ricevute, mutando i gesti, gli insegnamenti che lui ha insegnato loro con tanta cura. La regia teatrale può durare anche una sola sera. Quella cinematografica, invece, fissata per sempre nella pellicola, non la cambia nessuno. Con un rischio, naturalmente; che con il passare degli anni… invecchia e nessuno, neanche l’autore, può ringiovanirla. Personalmente, però, questo è un rischio che non mi preoccupa. Mi piace fare dei film, ma appena li ho finiti non mi interessano più. Mi interessano soltanto quelli che farò dopo. È raro, rarissimo che io riveda i miei film. In questo modo, così, non mi accorgo se invecchiano. E non invecchio neanch’io”.

Pubblicazioni di riferimento: 7 domande a 49 registi di Gian Luigi Rondi (SEI Ed.) , Cineforum (AA. e Nrr. VV.), Filmcritica (AA. e Nrr. VV.), Positif (AA. e Nrr. VV.), Chaiers du cinéma (AA. e Nrr. VV.), Bianco e nero (AA. e Nrr. VV.).

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