SERGEJ JUTKEVIČ. TRA CINEMA SOVIETICO E TEATRO DI SATIRA MOSCOVITA

Cinquantasei anni di attività nel cinema sovietico, pittore, poeta, teorico di Sergej Michajlovič Ėjzenštejn, di cui ha curato una raccolta critica di tutta l’opera, insegnante all’Istituto Statale di Cinematografia di Mosca, nel cinema dal 1926, come scenografo, e regista dal 1928.

Quali sono i motivi che sono alla base di una attività così varia?

    « Ho cercato sempre di dare una risposta ai problemi che mi preoccupano con tutti i mezzi che ho a disposizione. Questa “avidità” me l’ha trasmessa il mio primo maestro, Vsevolod Ėmil’evič Mejerchol’d. È lui che mi ha insegnato l’arte della regia, dandomi nello stesso tempo una lezione molto importante: “Se voi essere davvero efficiente – mi disse – devi saper passare immediatamente  e totalmente da una materia all’altra. Più saranno diverse tra loro e più ti sarà facile lavorarci attorno“».

Come riassumerebbe i suoi quarantasei anni di attività come regista di cinema?

    « Debbo al mio mestiere di regista di aver potuto rimanere sempre a contatto con la vita reale. Il mio primo film, Kruzheva (Merletti, 1928), era dedicato alla gioventù operaia. Insieme con i suoi protagonisti, mi immersi per vario tempo in tutti i problemi di una fabbrica di merletti. Il secondo film, Chyornyy parus (Vela nera, 1929), parlava di gente di mare e realizzandolo, ho condiviso la vita di marinai e pescatori cercando di conoscerla, di capirla. Durante le riprese de Le montagne dorate (1931) ho passato tutto il mio tempo in una fabbrica. Per girare Shakhtyory (Minatori, 1937) mi sono dedicato allo studio della costruzione dei tubi e per le riprese dei minatori sono sceso a centinaia di metri di profondità in una miniera. Dopo la Seconda guerra mondiale sono tornato ai problemi della gioventù realizzando un film musicale sulla nuova generazione della classe operaia, Zdravstvuy, Moskva! (Ciao, Mosca!, 1945). In tutti i miei film ho cercato sempre di sperimentare qualcosa di nuovo. Sono uno sperimentatore per natura. Film come Le montagne dorate, Chelovek s ruzhyom (L’uomo con la pistola, 1938), Otello il moro di Venezia (1956), sono stati tutti degli esperimenti di regia cinematografica, e così i miei primi film riusciti sulla gioventù. (Non includo tra i film riusciti Merletti e Vela nera, nonostante il primo mi sia caro perché almeno mi ricorda il mio esordio come regista). Minatori (all’estero s’intitolò anche Turbina da 50.000) mi è stato utile perché mi ha fatto capire l’influenza che può avere sul pubblico vasto un tema di attualità. In Yakov Sverdlov (1940) ho tentato di risolvere in modo nuovo il problema del tempo e dello spazio. Altra sperimentazione nel documentario Osvobozhdyonnaya Frantsiya (La Francia liberata, 1946) dove riuscii a realizzare la ricerca di una nuova struttura drammatica, impiegando per la prima volta il procedimento del “piano-sequenza”; non con intenzioni formali, ma per dare maggiore rilievo alla sostanza politica del film ».

E la sua trilogia di Lenin?

    « La vita di Lenin ha rappresentato per me un tema di eccezionale ricchezza che ho affrontato attraverso gli anni in tre momenti diversi. Prima ne L’uomo con la pistola, poi nei Rasskazy o Lenine (Racconti su Lenin, 1958) quindi con Lenin v Polshe (Lenin in Polonia, 1966). Li ho realizzati tutti con l’intenzione costante di rappresentare, attraverso il prisma della contemporaneità, il passato storico della società sovietica, cercando di individuarne le prospettive future alla luce del pensiero di Lenin ».

E adesso?

    « Continuo a “collaborare” con un autore che mi è molto caro, Vladimir Vladimirovič Majakovskij. L’ho conosciuto personalmente e mi considero un suo allievo. Amava molto il cinema, ma le sue idee per il cinema, quando era vivo, non ebbero mai molta fortuna. Era un artista che andava oltre il suo tempo e le idee che si avevano allora sulla regia non riuscivano a tener dietro al suo pensiero innovatore e alla sua visione del mondo. È accaduto lo stesso, del resto, con i suoi lavori drammatici. Ci sono voluti venticinque anni perché trovassero il posto che meritavano nel repertorio del teatro contemporaneo. Nel 1953 e nel 1955, al Teatro della Satira di Mosca, io gli ho messo in scena prima Banya e poi Klop, in seguito, con Anatoli Karanovich, ho curato nel 1962 la riduzione di Banya (Il bagno), e adesso, sempre in collaborazione con Karanovich, sto preparando la riduzione di Klop (La cimice) che si intitolerà Klop 75 ili Mayakovskij smeyotsya (La cimice 75 Mayakovskij ride). Mi ha sempre molto interessato il tema della Cimice. Il suo protagonista, Pyer Skripkin, è la personificazione di un difetto contro cui Majakovskij si è battuto rabbiosamente tutta la sua vita, il filisteismo. Questo ex operaio, questo ex membro del partito aveva persino cambiato il suo nome in quello di Skripkin “perché suonava meglio”. Alla ricerca di quello che voi in Italia chiamate “la dolce vita”, aveva deciso di tradire la sua classe, “riposandosi dalla rivoluzione” e diventando schiavo della “società dei consumi”, come si dice oggi. Un personaggio, insomma, che non ha perduto niente della sua attualità! Per questo la versione cinematografica cercherà di riproporre il testo in una cifra particolarmente attuale. Come del resto suggeriva anche Majakovskij quando raccomandava a chi metteva in scena le sue commedie di fare in modo che il contenuto fosse sempre “del momento”. Ecco perché, nell’ultima parte del film, ci siamo permessi di trasferire Pyer Skripkin in Occidente, anziché metterlo semplicemente in una gabbia allo zoo come faceva Majakovskij… Gli attori saranno affiancati da burattini ed anche da personaggi disegnati. Non è una trovata gratuita. A Majakovskij piacevano i disegni animati e dava loro sempre molto spazio nei suoi soggetti. Nel film utilizzeremo anche le tecniche del fotoromanzo. Sarà un “film-collage“, insomma; a mio avviso una delle forme più moderne di arte cinematografia ».

Cosa intende per « film-collage »?

    « L’impiego di tutti i procedimenti del cinema. Lo scontro fra le più diverse fatture. Non per compiacersi, però, del bell’effetto ottenuto, ma per esercitare un’azione politica sullo spettatore, per dare più forte rilievo, e nei loro aspetti più insoliti, alle cose, ai fatti, ai personaggi, ai fenomeni. Per quel che mi riguarda, comunque, non è la prima volta che tento una sperimentazione del genere. In certi miei film a soggetto, ad esempio, ho introdotto elementi di cronaca dal vero, nei miei documentari La Francia liberata e Vstrecha s Frantsiey (Incontro con la Francia, 1960) ho inserito dei disegni animati e degli episodi recitati da attori, ne Il bagno c’erano insieme riprese in esterno e disegni animati, in Lenin in Polonia c’era l’impiego dei procedimenti del disegno animato affiancati a quelli del documentario. E uno dei miei ultimi film, Syuzhet dlya nebolshogo rasskaza (Tema per un piccolo racconto, 1969), era costruito quasi per intero sul sistema del collage: sullo scontro tra superficie piana e volume, sul contrasto fra riprese dal vero e forme disegnate, sul montaggio di scene di animazione e di didascalie di tono lirico. Tutto questo, ripeto, non certo in vista di effetti solo formali, ma per poter rappresentare meglio e più intensamente, con gli strumenti della satira politica e del cinema contemporaneo, le idee che ispirano la società sovietica. In linea proprio con quello che voleva Majakovskij, che era un artista “politico” nel senso più preciso della parola, e che era sì impegnato nella ricerca di forme nuove, ma per poter esprimere anche contenuti nuovi, socialisti ».

Il cinema sovietico in un suo bilancio?

    « Vuole dei nomi? Le faccio quelli che saranno domani all’avanguardia del nostro cinema: Gleb Anatol’evič Panfilov, con due film, Nessun orizzonte oltre il fuoco (1967) e Il debutto (1970), proiettato quest’ultimo alla Mostra di Venezia nel ’71. Un autore originale, con una personalità ben definita, che tende al lirismo passando anche attraverso i modi della tragicommedia. E ancora: Mark Osepyan, regista di Tri dnya Viktora Chernyshova (Tre giorni di Viktor Chernyshov, 1968); Otar Ioseliani, con Pastorali (1975), e Georgij Nikolaevič Danelija, con Un ragazzo perduto – Le avventure di Huckleberry Finn (1973); Vladimir Motyl con Il bianco bianco nel deserto (1970), e Jurij Illjenko, ucraino, con Belaja ptica s čërnoj otmetinoj (L’uccello bianco marcato di nero, 1971)

E il cinema italiano?

    « Il migliore, per me, è Fellini. Posso essere in disaccordo con lui su certi temi, ma la forza del suo talento è tale che anche senza volerl0, mi affascina. Roma e Amarcord sono “diari lirici” e nell0 stesso tempo film pieni d’ironia e di grottesco. E così I clowns. Naturalmente ci sono anche degli altri autori italiani che mi interessano e mi commuovono (non solo come autore, ma come uomo): quelli come Petri, Loy, Gregoretti, Vancini, Montaldo che affrontano i problemi dolorosi della società italiana testimoniando la vitalità delle tradizioni progressiste del vostro cinema. Con un posto a parte, è chiaro, per Visconti. La cultura cinematografica nei suoi film mi ha sempre conquistato. Morte a Venezia, a mio parere, è uno dei suoi capolavori. E con un altro posto a parte per Roberto Rossellini, padre del vostro Neorealismo, che ha consapevolmente rinunciato al cinema d’arte per dedicarsi al cinema didattico, educativo. In questo, forse, seguendo Cesare Zavattiti quando a suo tempo coniò la formula “cinema utile”. Una formula che condivido in pieno e che interpreto nel senso di utilità “per tutta l’umanità”, a favore dei più alti ideali umanitari. Il cinema non è denaro, arricchimento, e non è neanche esperimento per pseudo avanguardie. È arte di azione sociale ».

Pubblicazioni di riferimento: 7 domande a 49 registi di Gian Luigi Rondi (SEI Ed.) , Cineforum (AA. e Nrr. VV.), Filmcritica (AA. e Nrr. VV.), Positif (AA. e Nrr. VV.), Chaiers du cinéma (AA. e Nrr. VV.), Bianco e nero (AA. e Nrr. VV.).

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