IL GATTOPARDO (1963). OLTRE MEZZO SECOLO DI GRANDEUR

Ciascuno di noi almeno una volta nella vita ha avuto a che fare con Il Gattopardo. Questo, di Giuseppe Tomasi di Lampedusa o che sia stato studiato (e imposto) nel corso degli studi superiori o che sia stato fonte di fascino imperituro per cultura personale, ha necessariamente impresso nella nostra mente immagini, metafore, sentimenti, immutabili nel tempo.

Certamente per chi di quella cultura non è soltanto cultore, ma anche cittadino (lasciatemi passare il termine) Il Gattopardo suggella una sorta di lascito testamentario nei cui confronti non si può non provare reverenza, silenziosa fascinazione.

    Citiamo velocemente i pilastri su cui poggiano le gattopardiane pagine ruggenti: la decadenza (di una famiglia, di uno status sociale, di un’epoca), l’amore (vero o presunto o fatale) tra la bella Angelica (Claudia Cardinale) e il giovane Tancredi (Alain Delon), antichi fasti che reagiscono anacronisticamente ad un cambiamento incipiente e poi Lui, pietra angolare di dialoghi sottaciuti e parole urlate con lo stesso slancio di un animale morente: Don Fabrizio Salina (Burt Lancaster).

    Per chi, per pigrizia o chissà cos’altro non avesse mai trovato il tempo di compiacersi della lettura di tale romanzo, Luchino Visconti, nel 1962, si occupa della trasposizione cinematografica. Un trionfo, per un romanzo che aveva conosciuto solo critiche, che aveva spaccato in due la massa degli acculturati tra reazionari e “rivoluzionari”. Il nostro contestato principe Tomasi di Lampedusa avrebbe mai potuto immaginare un più capillare successo per quel romanzo che vide albori postumi e difficile affermazione? Avrebbe mai potuto immaginare che quel romanzo, grembo di una sanguigna sicilianità sarebbe stato di ispirazione e fortuna ad un “giovane” lombardo? Eppure, un filo rosso, lega quella Sicilia a questa Italia, o meglio, pochi metri di pellicola battezzano un progetto che tanto infedele quanto grandioso abbraccia il pubblico nel 1963.

    Il Gattopardo (1963) ci conferma un Visconti perfezionista, affezionato al romanzo (per la nobiltà di cui è portatore o per il profondo accomunamento melodrammatico), pronto a spendere e spendersi. Le riprese fatte in ben quattro cantieri diversi (e non solo a Palermo), sceneggiature allestite, adeguate o create ex novo in tempi brevi, lavori incessanti di sartoria, riprese su riprese in condizione climatiche discutibili… e la musica; Nino Rota non era mai stato così incerto su quale dovesse essere il tema del film fino a quando, in uno slancio di totale fiducia Visconti non si affidò ad una composizione su cui lo stesso Rota non nutriva particolare propensione. Ma quello di Visconti fu un innamoramento, totale. E di fronte ad un innamorato nessuno riesce a desistere.

    La capacità di Visconti straordinaria risiede ovunque egli abbia posato l’occhio (e, di certo, non solo per mio modesto avviso), Il Gattopardo si fregia di quella caratteristica propria di una bilancia, l’equilibrio. La contrapposizione delle scene fa da padrona. Sebbene il romanzo si soffermi con pathos su un mondo morente su cui si erge un mondo nuovo, ma caotico, nella pellicola il modo per poter rendere giustizia alle pagine è quella di sottolinearne il forte contrasto. Viscontiano è però il merito personale nell’essere riuscito a rendere tutte quelle inquadrature oggettive, soggettive. Diversamente dalle scene di stampo prettamente “storico”, i paesaggi, le panoramiche, sono pregne di melanconia tanto quanto lo sguardo di Don Fabrizio. E attorno a lui si apre un variopinto ventaglio di donne; donne tra cui nessuna tiene testa alla giovane e bella Angelica portatrice non solo della freschezza che si confà alla sua età, ma simbolo di una nuova terra che si alimenta anche delle più piccole gocce di pioggia per poter prepotentemente sbocciare.

    Di Don Fabrizio sono le luci calde, i toni neutri, a lui sono associate scene dal sapore appartato, quasi intime; con lui siamo all’interno di uno studio tra libri, diari, telescopi. Con lui siamo accanto alla principessa, nel talamo nuziale, con lui dialoghiamo! Di contro c’è una Sicilia in trambusto, scene rocambolesche che una fotografia, fatta di simmetria, non riesce a domare. In queste scene è presente, di contro, un ulteriore ventaglio femminile; donne del popolo agitate diametralmente opposte alle donne statiche di Don Fabrizio. Per un “fuori”, polveroso, sanguigno e ferito si apre un “dentro” ancora sfarzoso, illuminato, accaldato. La grande, magistrale, scena del ballo impegna ben oltre i trenta minuti finali dell’intera pellicola. Perché tanta attenzione per un ballo? Perché tutta l’opera ha condotto ad una conclusione non amara, ma festante, musicale di un’orchestrina scatenata in polka e valzer? Ciascuno sicuramente avrà una personale risposta, ciascuno al suono del valzer interpreterà la propria personale morte e rinascita.

GEORGETA QUAGLIANO

Redazione, ASCinema – Archivio Siciliano del Cinema

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