FELLINI OTTO E MEZZO

Per questo film il problema del “maestro” fu trovare una donna alta un metro e ottanta, bionda, che dia un senso di protezione. Ma il copione è ancora indefinito nelle sue fantasie

Da un’ora buona mi diverto a guardare Fellini che, tranquillo e incosciente, con una faccia ancora piena di sonno, sta trasformando la sua giornata in una trappola di impegni che non potrà assolutamente rispettare e dalla quale uscirà solo stanotte, sfinito e nauseato, rimandando tutto a domani.

    «Non ci sono per nessuno», aveva ordinato mettendo piede in ufficio dopo esser passato, con un “ciao” generale, attraverso la piccola folla che l’aspettava in anticamera. «Niente telefonate», aveva raccomandato alla segretaria. Ma un attimo dopo, una mano sul telefono e l’altra tesa al di sopra del tavolo, affrontava già la prima serie dei privilegiati ammessi al suo cospetto. «Come stai? Dimmi subito cosa vuoi, sì, scusa un momento. Pronto? Finalmente, è dalle nove che aspetto la tua telefonata. Non c’ero? Può darsi, svelto, dimmi lo stesso.» Parla, ascolta, e intanto controlla i foglietti con le annotazioni, passa un biglietto alla segretaria, cerca una sigaretta, alza gli occhi su chi gli sta davanti supplicando un rinvio. «Perché non ne parliamo domani?». «No, Federico, c’è il tale che aspetta una risposta.» «E va bene, torna alle sei, d’accordo, ti ringrazio.»

    Per le sei Fellini ha già preso tre appuntamenti diversi, alla stessa ora lo aspettano in un teatro di posa per un provino e sempre per le sei ha promesso a un aiuto di essere puntuale in qualche altro posto.

    «Dunque che ti dicevo?», chiede a me afferrando per la ventesima volta il telefono. «Niente, non mi dicevi niente.» È l’una passata, e Fellini ha smesso da un pezzo di rivolgermi i suoi addoloratissimi “abbi pazienza”, quando all’improvviso la baraonda in mezzo alla quale si dibatte tutto soddisfatto sembra placarsi ed entrare finalmente in stanca.

    «Sai che facciamo, adesso? Ce ne andiamo a mangiare qualcosa qui vicino.» «Guarda che tua moglie t’aspetta a casa. » «Ma no, telefoniamo. Anzi, telefoniamo anche a Marcello e facciamo venire pure lui.» Comincia a chiamare a casa sua e a casa di Mastroianni, poi cerca di spostare faticosamente sul tardi qualche improrogabile impegno preso per il primo pomeriggio. E quando Mastroianni arriva, con comodo, deve anche lui abbandonarsi in poltrona per un po’, in rassegnata attesa. «Buon segno», dice l’attore ammiccando verso il regista. «Forse ci siamo: mese più, mese meno, questa è la volta che si comincia a girare.»

    Della nuova idea mi aveva accennato già nel febbraio del ’60, mentre La dolce vita veniva presentata a Roma e a Milano. «Adesso vorrei raccontare la storia di un provinciale che dalla grande città dove s’è inurbato fa ritorno fra i suoi: le sue delusioni, i falsi miti, la malinconia.»

    Girando per le strade della vecchia Roma, un anno fa, gli chiesi notizie del film già annunciato. «Ci sto lavorando», disse Fellini di malavoglia. «Ho precisato una vecchia idea, cambiando tutto, e una notte ne ho parlato con Flaiano. Poi, fra settembre e ottobre siamo andati avanti, evitando d’incontrarci: facciamo sempre così, quando un soggetto non è ancora maturo e chiaro.

    Era inutile insistere. A quell’epoca Fellini era ancora invischiato pesantemente dentro I’imprevedibile e clamoroso successo de La dolce vita. Ogni volta che cercava di uscirne, dimenticando il lavoro fatto, qui o altrove lo risucchiavano di nuovo le polemiche, le discussioni, la necessità di fornire spiegazioni, lungo il calendario delle “prime”.

    «Non dico che tutta questa popolarità mi dispiace», diceva allora Fellini. «Sarei un ipocrita. Ma mi rompe le tasche, ormai, questo spropositato baccano: ho fatto solo un film. Ma arrivano i premi, e allora bisogna andare di nuovo a destra e a sinistra, sopportare analisi pedanti e rispondere a domande incredibili. Ma lo sai cosa mi domandano? Mi vengono a chiedere cosa sarà della nostra civiltà, capisci? A me, a questo vecchio vitellone», diceva con falsissima modestia. «Manco fossi Gandhi o Bertrand Russell

    Forse un anno fa il nuovo film era veramente un’idea ancora troppo nebulosa, forse La dolce vita con il suo esplosivo e sconcertante risultato, avrebbe intimidito qualsiasi regista. «Adesso chissà cosa s’aspettano da me. Che mi metta a fare sul trapezio il triplo salto mortale, senza la rete», ripeteva Fellini. La sua leggendaria pigrizia accoglieva prontamente qualsiasi pretesto capace di distrarlo.

    Per non pensare troppo a quel progetto, un anno fa fingeva perfino di fare il produttore. In via della Croce aveva aperto un lussuoso ufficio, arredato con pezzi d’antiquariato, e per un paio di mesi il giochetto lo aveva divertito. «Vieni a trovarmi», raccomandava a chiunque incontrava. In quel grande ufficio da uomo d’affari perdeva tranquillamente le sue giornate. «Che vuoi che ti dica: qui c’è tutto, i soldi di Rizzoli, l’esperienza di Fracassi, il mio nome. Dovremmo aiutare i registi giovani a fare qualcosa, invece niente. Siamo riusciti a far stampar solo una bellissima carta intestata, guarda qua. Nient’altro. Perché? Mistero. Ma forse le cose devono andare così.» A parlargli del lavoro futuro, e delle serate che passava lavoricchiando con gli sceneggiatori, prendeva un’aria di difesa sorniona. A Flaiano s’erano aggiunti Pinelli e Brunello Rondi. «Ma sì, comincerò le riprese molto presto», assicurava. Metteva anche delle scadenze, sapendo che non le avrebbe rispettate: marzo ’61, diceva serio. Poi era venuta la proposta di Tonino Cervi e di Carlo Ponti, per l’episodio di Boccaccio ’70. E a lui non era parso vero di trovar un’altra scusa per accantonare l’impegno più grosso. Ora è qui che me ne parla, come sollevato finalmente da un incubo. «Comincio fra un mese, ma sul serio.» Sul contenuto del film si mantiene misterioso. «Non si va a chiedere a uno scrittore i particolari di un romanzo prima ancora che si metta a scrivere, no? E allora, perché lo stesso criterio non deve valere per un regista?»

    Qualche settimana fa ha risolto il problema più grosso, quello del protagonista. Mastroianni o Laurence Olivier? Il dubbio lo aveva perseguitato per mesi.

    «Me li sognavo tutte e due di notte, pensa che roba. Una volta vedevo interi pezzi di film con dentro Olivier e un’altra volta immaginavo con Mastroianni. Mi svegliavo con le idee sempre più confuse. Finalmente mi sono deciso per Marcello. Con lui mi sento più sicuro. Per un anno siamo stati insieme tutti i giorni, in quel baraccone favoloso che era la troupe de La dolce vita, e io mi affeziono sempre a chi lavora con me. Ma anche questa è solo una forma di compiacimento verso se stessi, forse.»

Laurence Olivier scartato

    Per questa parte, con il regista italiano di cui si parla di più nel mondo, Laurence Olivier si era tenuto a lungo disponibile. Fellini, qualche mese fa, aveva anche comprato il biglietto aereo per andare a New York, a discutere con lui, poi aveva sentito crescere i dubbi e aveva rinunciato. «La verità è che Olivier, probabilmente, mi metteva soggezione. Come interprete è troppo legato a personaggi di grande statura, e io, su un attore, ho bisogno di lavorare come mi pare, con tenerezza e con cinismo, da psicanalista o da mascalzone, capisci?»

    Mastroianni sta ad ascoltare quieto, mentre il regista parla di lui come se fosse già un’immagine sullo schermo. «Marcello, dice Fellini senza guardarlo, «io lo conosco a memoria. Secondo me è più intelligente di quanto serva a un attore, vive con un certa svagatezza. infantile, ma anche con un buonsenso equilibrante. Mi ha aiutato molto a chiarire il personaggio.»

    L’attore è una delle poche persone che conoscano interamente il film, ma naturalmente è tenuto al segreto. «C’è poco da dire, il personaggio mi piace senz’altro più di quello de La dolce vita: Marcello era ancora una figura un po’ sterile e superficiale, poco matura. Guido, invece, mi pare un tipo più cosciente e più inserito nella vita.»

    «Si chiama Guido?», chiedo sbalordito per la piccola indiscrezione. Fellini fa un gesto con la mano. «Si, si, dagli appunti si chiama così. Ma il nome non mi piace, lo cambierò. Devo ancora cambiare un sacco di cose, qua dentro.»

    Là dentro, cioè nella borsa di pelle nera che Fellini sorveglia con la cura circospetta di un corriere diplomatico, c’è tutto quello che riguarda il film-mistero: problemi, trama e morale. Incredibilmente, l’apre ora sotto i miei occhi. E al posto del solito volumone della sceneggiatura esce un pacco di cartelle, di appunti, di brani dialogati, di schemi di ripresa di disegni di personaggi tracciati in fretta dalla matita del regista.

    «Che ti dicevo? Ti pare che si possa raccontare come un romanzo, una storia come questa?»

    Sbircio le copertine azzurre. Non c’è nessun titolo. Su qualcuna è scritto semplicemente: “Il nuovo film”. Su un’altra c’è, a matita rossa, questa curiosa iscrizione: “Fellini otto e mezzo“.

    Viene anche la spiegazione: «Finora ho girato sette film, più l’episodio di quest’estate, che è lungo appena mille e cinquecento metri, metà di un film normale. Magari, avessi già trovato il titolo. Per me avere un titolo, prima di cominciare il film, è quasi indispensabile: mi fornisce uno schema, e serve da coagulante».

    Oltre al titolo, gli mancano anche alcuni interpreti di primo piano. Fra un paio di mesi al massimo assicura che comincerà le riprese a Tor Vaianica, poi a Roma, a Fano e forse anche all’aeroporto di Londra, ma è ancora impegnato a cercare la “signora Carla”: per trovarla ha rivolto perfino un appello alla televisione.

    «È solo una delle donne in cui s’imbatte il protagonista, ma è particolarmente importante. Dev’essere un tipo formoso e placido, un po’ sonnolento. Insomma ci vorrebbe la Susanna al bagno. Un genere di donna che non esiste più. Mi accontento di una donna floreale sui trentacinque, meglio bionda, con un corpo bianco e soffice, alta uno e ottanta», dice completando con grandi gesti la rotonda descrizione. Poi si ferma con le mani alzate. «Tu la conosci, una così?». «Alta uno e ottanta?». «Eh sì. Dev’essere come un grande albero; deve dare anche un senso di ristoro e di protezione. Ora te la disegno.» E si mette a tracciare svelto le pienissime curve di quel personaggio che gli deve rendere inquiete le notti.

    «Dimenticavo una cosa importante», dice alla fine Fellini mettendomi davanti il suo donnone dalle carni bianche: «Questo sarà un film comico. Perlomeno avrà una prospettiva decisamente umoristica. Ma questo si capisce».

    Non si capisce ancora niente, invece, di questo attesissimo film, dopo un attìmo che Fellini ne parla. Ed è solo per questo, naturalmente, che Fellini ne parla.

NERIO MINUZZO

Intervista del 1962
Redazione – Archivio Siciliano del Cinema

GALLERIA FOTO

GALLERIA VIDEO