GIOVANNI VERGA NEL CINEMA

Nel centenario della morte, lo storico e critico cinematografico Franco La Magna dedica questo breve saggio a Giovanni Verga, il grande scrittore siciliano che creò il verismo. Un autore che, insieme a Manzoni, è stato il più grande italiano dell’Ottocento. A materiali verghiani provenienti da varie fonti è dedicata la mostra al castello Ursino di Catania, dal 18 novembre al 25 dicembre 2022, con una piccola sezione rivolta al cinema trasposto dalle sue opere letterarie e teatrali.

La fortuna cinematografica di Giovanni Verga, il cui iniziale disprezzo per il cinema non basta a bloccarne le sorti felici “nell’arte muta” e copiosamente, in seguito, anche in quella sonora, esplode fragorosamente intorno alla seconda metà degli anni ’10. Del realismo verghiano, tuttavia, i primi ad innamorarsene sono francesi, sicché il padre del verismo accetta nel 1909 l’offerta dell’Association des comedeurs et autres dramatiques di cedere i diritti dell’opera teatrale “Cavalleria rusticana”, al fine di ricavarne una versione filmica. Attratto sia dal guadagno che dalla possibilità di accrescerne la notorietà, imprudentemente Verga conclude rapidamente il magro affare (500 lire), sicché Victorin Jasset (o secondo altri storici Emile Chautard o ancora Raymond Agnel), gira Chavalerie rustique (1910), opera di chiare ambizioni autoriali, ma decisamente disprezzata dallo stesso Verga che “per curiosità” andrà a vederla, scrivendo perfino dopo la visione che “non arrivavo a capirla”, rafforzando così la sua non certo benevola valutazione di questo ancor primitivo cinema. Una coeva Cavalleria rusticana, secondo fonti storiche locali, viene girata anche in Argentina, diretta da Mario Gallo e interpretata da Giovanni Grasso, in quegli anni in lunga tournée nel paese delle pampas. Scoperta la gallina dalle uova d’oro, al Verga commercialmente più redditizio – soprattutto quello del soggettivismo romantico, dei romanzi giovanili – la neonata industria del cinema non è disposta a rinunciare. Sicché dopo qualche anno di collaborazioni “celate” (scrive e spedisce a Dina di Sordevolo, già sua compagna, alcune sceneggiature, pregandola di ricopiarle e di dire che sono “cosa tua”) sarà lui stesso – cantore della mitica roba – a superare con un clamoroso atto d’apostasìa (almeno apparentemente) ogni disgusto verso l’odiato cinematografo, che chiama “castigo di Dio”, lanciandosi alacremente ad adattare romanzi, novelle e racconti, che cominciano a susseguirsi sullo schermo a ritmo incalzante. Nel 1916, infatti, riscattati i diritti dalla francese ACAD e da lui stesso prontamente ceduti alla Tespi di Roma, ecco apparire in contemporanea ben tre film: le prime due versioni italiane di Cavalleria rusticana, in qualche modo assimilabili alla flebile corrente realista, ancora subissata dai residui degli “orrori romantici” e dai kolossal e Tigre reale. La prima delle due Cavalleria porta la firma del regista-drammaturgo e critico teatrale romano Ugo Falena, prodotta dalla Tespi Film, che appunto ne aveva acquistato i diritti da Verga, ed è girata nel territorio del capoluogo etneo (Aci Castello). Nei panni di Santuzza viene chiamata un’attempata Gemma Stagno Bellincioni, famosa soprano. Dapprincipio dunque fieramente ostile alla “settima arte”., ma poi allettato dalla panica dei facili profitti, Verga non impiega molto a trasformarsi in riduttore, rifacitore e produttore delle proprie fatiche letterarie, fino al punto di aderire alla società cinematografica milanese Silentium Film (1917). La seconda versione di Cavalleria rusticana, del regista e attore teatrale e cinematografico romano Ubaldo Maria Del Colle (anche interprete con Linda Pini), prodotta dalla Flegrea Film di Napoli, è tratta invece dall’opera lirica di Mascagni pubblicata da Sonzogno, da cui Del Colle aveva acquistato i diritti, qui arbitrariamente considerata vera e propria fonte e girata, a quanto risulta dalle testimonianze cartacee dell’epoca, anch’essa in territorio etneo (Etna). I due film provocano una controversia (che per mesi appassiona riviste e giornali del tempo) e si protrae fino all’anno successivo, trascinandosi tra aule di tribunale e disquisizioni giuridiche sul diritto d’autore, finché viene finalmente sedata da un “salomonico” giudizio finale: a Verga vengono riconosciuti i diritti esclusivi sul soggetto; la concessione della Sonzogno alla Flegrea è dichiarata abusiva e il maestro Mascagni subisce anch’egli una condanna per aver aggravato le spese di giudizio D’altra materia narrativa (diversa ambientazione, altri personaggi), ma al pari di Cavalleria altrettanto dotato d’appassionate escandescenze, può considerarsi il mélo “liberty” Tigre reale (1916) diretto da Piero Fosco (pseudonimo di Giovanni Pastrone, lo stesso regista di Cabiria) per la torinese Itala-Film. Decadente ed esasperato mélo passionale con una conclusione rispetto al romanzo, more solito, corretta ed edulcorata, Tigre reale – interpretato dalla “sconvolgente” diva messinese Pina Menichelli e dal conterraneo Febo Marinon sfugge all’occhiuta e ombrosa censura sessuofobica giolittiana che ne sforbicia qualche scena. L’anno dopo il successo di Tigre reale la milanese Silentium decide di portare sullo schermo La storia di una capinera (1917) regia di Giuseppe Sterni, straziante racconto d’una monacanda (Linda Pini) destinata suo malgrado al convento (la vicenda è ambientata a Catania, nell’ex convento di S. Chiara ed è ispirata ad un amore idilliaco, sbocciato nel 1854, tra lo scrittore e una monacanda). Apprezzato anche il bozzetto scenico Caccia al lupo (1917) sempre di Sterni e sempre ricavato da un fosco racconto di Verga, prodotto ancora dalla Silentium, cupa trama di tradimenti e gelosie (mogli fedifraghe e dongiovanni colto in trappola) divenuto anche un atto unico teatrale, girato e ambientato a Catania, con finale e timbro drammatico modificato. Il film, attaccato dalla censura, viene rimesso in circolazione, dopo la vittoria in appello della produzione, solo con pochi tagli alla sceneggiatura. Morto Verga nel 1922, un’altra Cavalleria rusticana (1924) – divenuto un vero e proprio fetish narrativo siculo, regia del napoletano Mario Gargiulo, interprete Giovanni Grasso – appare, quando l’apparato produttivo cinematografico italiano è allo stremo delle forze ed il cinema italiano è da tempo entrato nel tunnel d’una esiziale crisi. In precedenza, a guerra appena finita, la presenza di Verga sul grande schermo aveva continuato a consolidarsi con Una peccatrice (1918, prodotto dalla Polifilm di Napoli) diretto da Giulio Antamoro, singolare capovolgimento d’un rapporto d’amore, chiuso dal suicidio della peccatrice (Leda Gys), una maliarda ricca e viziata alla fine suicida perché vittima d’una insana passione per un povero studente, dapprincipio respinto e del quale poi s’innamorerà perdutamente, fino ad avvelenarsi quando questo l’abbandonerà. Verga, indifferente ad ogni critica, scrive i soggetti e tace. Le sue fortune del resto, quando già si è da tempo ritirato schivo e solitario nella città natale, proseguono in crescendo con il successivo Eva (interprete Alba Primavera, indicata come “stella italo-napoletana”), altro feuiletton estremo, diretto nel 1919 dal romano Ivo Illuminati e prodotto ancora dall’onnipresente Silentium-film. Un anno prima della morte dello scrittore appare sugli schermi Il marito di Elena (1921) regia di Riccardo Cassano, con Fernanda Fassy e Nino Camarda, tragedia di un pover’uomo che uccide la compagna fedifraga – una specie di madame Bovary in sedicesimi – a pugnalate. Chiusa l’epopea del cinema muto, una nuova, colorita e folcloristica Cavalleria rusticana (1939) regia di Amleto Palermi – dalla raccolta di novelle “Vita dei campi” e dal dramma omonimo – riprende l’attenzione sul Catanese dopo un lungo periodo di abbandono, portando in scena nel cinema, ormai da quasi dieci anni sonoro, un cast nazionale all stars: Isa Pola, Carlo Ninchi, Doris Duranti, Leonardo Cortese, Bella Starace Sainati, Luigi Almirante, Carlo Romano. Secondo un referendum indetto dalla rivista “Cinema”, diretta dal figlio del Duce Vittorio Mussolini, risulterà essere il film più apprezzato degli anni ’30. Nel primo scorcio degli anni ’40 nasce anche una nuova versione de La storia di una capinera(1943) regia del tenacissimo e attivissimo pioniere del nostro cinema Gennaro Righelli, con Marina Berti e Claudio Gora, tratto dal noto romanzo, ambientato nel convento di S. Chiara a Catania, adattato da Ettore Margadonna, Corrado Alvaro e lo stesso Righelli, un mélo d’appendice intriso di pessimismo. Chiuso sanguinosamente il ventennio fascista, passata la catastrofe bellica, riappropriatosi in modo personalissimo della narrativa siciliana e trasferiti nel 1947 cast e troupe ad Aci Trezza, frazione rivierasca del paese di Aci Castello, dopo sei anni di silenzio seguiti a Ossessione, Luchino Visconti gira La terra trema (1948), attinto dalla viva e appassionante materia creativa del capolavoro dello scrittore I Malavoglia – divenuto a sua volta il capolavoro dei capolavori del neorealismo (spingendone agli estremi l’estetica) – ribaltandone però l’impostazione concettuale e spezzandone la disperata fatalità, con l’applicazione di un impianto ideologico di derivazione gramsciana. La matrice verista, quando volge al termine o si è già rapidamente trasformato il poetico afflato iniziale, resta principio d’ispirazione predominante per la parte nobile del rinascimento cinematografico italiano, il neorealismo, che spesso derivato da fonti narrative subisce non pochi adattamenti e perfino vere e proprie rielaborazioni. Accade così al regista milanese Alberto Lattuada, che spostando fisicamente la vicenda in una manifattura tabacchi, centro di sfruttamento della manodopera femminile, tra gli scenografici sassi di Matera e temporalmente negli anni ’50 del secolo scorso (protagonisti la torbidamente lussuriosa Kerima, pseudonimo di Miriam Charriére, May Britt ed Ettore Manni), rilegge uno dei testi più noti dello scrittore per farne un film, La lupa (1953), d’impostazione realista e di buon impianto drammatico. Rifatto nel 1996 da Gabriele Lavia (esistono anche due recenti mediometraggi), protagonista l’allora moglie del regista Monica Guerritore, nei panni d’una altrettanto ingorda e rantolante Lupa, avida e famelica, alla fine fatta fuori a colpi di scure dal bel genero contaminato dalla sua lussuria. Nello stesso irripetibile 1953, ricchissimo di titoli, il decano Carmine Gallone si cimenta con Verga-Mascagni approntando una nuova, fremente e palpitante, Cavalleria rusticana (1953), versione poco aderente allo spirito verghiano, ma di livello tecnico-artistico decoroso; interpreti ancora Kerima, il messicano Antony Quinn, la svedese May Britt (Maybritt Wlkens), Ettore Manni, Umberto Spadaro, Virginia Balistrieri. Nel mutato clima politico-sociale, scosso da stridenti conflittualità e dai moti di piazza studenteschi, Carlo Lizzani, altro regista di estrazione neorealista, riprende e realizza – con crudezza d’immagini – L’amante di Gramigna (1968, con Gian Maria Volontè e Stefania Sandrelli), ispirandosi ancora una volta liberamente all’omonima novella (nel film un contadino ingannato da un aristocratico e divenuto brigante), imbastendo una visione disincantata dell’epopea garibaldina, polemicamente antiretorica e di chiaro significato politico. Ormai penetrata in senso demistificante la turbolenta storia risorgimentale – che in Sicilia scrive alcune delle sue pagine più tetre e sanguinose – torna sui grandi schermi con un’opera scioccante e smitizzante, Bronte: Cronaca di un massacro che i libri di storia non hanno raccontato (1971) regia di Florestano Vancini, basata sulla novella “Libertà” – priva di precisi riferimenti geografici e con qualche elemento artatamente falsato o taciuto – e soprattutto su un’attenta monografia di Benedetto Radice, notevole figura di storico locale e altre fonti. Magistrale l’interpretazione di Ivo Garrani e Mariano Rigillo. . Spericola tra Verga e Mascagni l’elegante, curato nei costumi, nell’ambientazione e nella sempre splendida fotografia di Armando Nannuzzi, ma quasi una fredda esercitazione di stile, Cavalleria rusticana (1981) di Franco Zeffirelli, film-opera proiettato in prima assoluta al Teatro Massimo Bellini di Catania alla presenza del regista; cast di fama internazionale: Elena Obrazcova, Placido Domingo, Axelle Gall, Fedora Barbieri, Renato Bruson. A Verga volge ancora lo sguardo Franco Zeffirelli girando tra Catania, l’Etna, Noto e zone del ragusano La storia di una capinera (1993) – con Angela Maria Bettis, Johnathon Schaech e Vanessa Redgrave – opera pencolante tra facili concessioni folkloristiche, escursioni naturalistiche, schitarrate, carretti e vena d’appendice. Infine gli ultimi Rosso Malpelo (2007) e Malavoglia (2015) del regista siciliano Pasquale Scimeca, ancora da materia letteraria tratta da Giovanni Verga e altri autori, tornano a ridestare l’attenzione su un romanziere le cui fortune cinematografiche nel corso di oltre cento anni non si sono mai esaurite e che probabilmente non ha ancora consumato il suo ormai ultracentenario apporto e la sua influenza sul cinema. In ultimo, qualche accenno al piccolo schermo, che sempre più continua ad inglobare il grande. Tra sceneggiati televisivi un vero e proprio capolavoro può considerarsi Mastro don Gesualdo (1964, andato in onda in sei puntate) regia di Giacomo Vaccari, che ribalta totalmente le regole linguistiche ancora piattamente applicate ai teleromanzi, provenienti dalla consolidata tradizione teatrale. Straordinario protagonista Enrico Maria Salerno, insieme a Lydia Alfonsi, Sergio Tofano e molti attori siciliani. Dagli anni ’50 l’interesse della televisione nazionale per il “padre del verismo”, oltre agli sceneggiati, si è altresì concretizzato in una serie di documentari. Molte anche le edizioni televisive dell’opera lirica di Pietro Mascagni.