ALEJANDRO JODOROWSKY E LA PSICOREGIA

Alejandro Jodorowsky è una delle personalità storica del cinema internazionale, anche autore e regista di teatro, scrittore, fondatore, con Fernando Arrabal e Roland Topor, del movimento “Panico“, e realizzatore di una serie di film oggetto di analisi e studio collettivo, come Il paese incantato (1968), El Topo (1970), La montagna sacra (1973), etc. Quest’ultimo lo ha girato negli Stati Uniti, scrivendone anche il soggetto, i dialoghi, le musiche, curandone i costumi, le scenografie e interpretandone il ruolo principale. Si è parlato spesso dell’influenza che, nel suo cinema, hanno avuto molti autori “maggiori”, ma Jodorowsky tende ad un’analisi differenziata.

“Ho sempre desiderato omaggiare autori importanti e noti che mi hanno preceduto o coevi. Ne El Topo, ad esempio, quando uno dei banditi beve da una scarpa, quello è un omaggio a Buñuel. Quando la donna cammina attorno al protagonista nel deserto, dicendo: “Niente, niente, niente“, quello è un omaggio a Godard, al suo Il bandito delle 11 (1966). Il duello fra El Topo e il colonnello, in quello spazio rotondo, è un omaggio a Sergio Leone. Invece, in altri momenti, quando la macchina da presa sta ferma e l’azione le si svolge davanti, in una sola inquadratura, allora è un omaggio al cinema muto. E soprattutto a Buster Keaton.

L’unico scope di tutte le attività umane – siano la politica, le arti, le scienze – è quello di raggiungere lo stato di illuminazione. Al cinema io chiedo quello che la maggior parte degli americani chiedevano alle droghe psichedeliche in quegli anni. La differenza è che quando uno crea un film psichedelico, non ha bisogno di mostrare visioni di una persona che s’è drogata. Il viaggio di Alessandro Magno, ad esempio, era un viaggio psichedelico. Penso che in realtà Alessandro Magno abbia viaggiato intorno alla profondità dell’esistenza. Penso che Ulisse sia stato un altro grande viaggiatore. Io, con il cinema, ho voluto viaggiare come sulla rotta di Ulisse o di Alessandro Magno. Voglio viaggiare nelle aree più profonde del mio essere per raggiungere l’illuminazione”.

Circa i simbolismi di Jodorowsky:

“Ogni cosa è un simbolo! Il digestivo confezionato nelle bustine, è un simbolo. Un quadrato con delle parole stampate dentro. Come me. Io sono un quadrato con delle cose stampate sopra: il mio nome, ciò che penso di essere. Si pensa per simboli. Forse potrei scrivere un intero libro con una sola parola, anzi, con un solo segno.

Per esempio, io non credo nelle sceneggiature. Sono una sorta di stampella. Non si può usare una sceneggiatura: è impossibile! È una cosa mostruosa; una cosa hollywoodiana. Non possiamo fare come a Hollywood. Lì si scrive una sceneggiatura per il produttore e poi si cambia tutto. E si deve cambiare. Ci sono tante cose scritte che prima non c’erano. Allora perché scriverle se è più semplice realizzarlo? El Topo, ad esempio, l’ho realizzato in nove mesi. Dal momento in cui ho concepito l’idea fino al giorno in cui ho messo al mondo l’opera completa. Ricordo che era un lunedì ed io e Roberto Viskin, il produttore, non avevamo né un’idea né un soldo in tasca. Allora ci siamo detti: “Facciamo un film!”. Io trovai l’idea e Viskin il denaro. Lui per me era una specie di mago. Io non credo di essere un artista, ma vivo come se lo fossi. Lui, invece, vive come una persona normale, ma è folle quanto me. E io, in quel periodo, avevo bisogno di qualcuno che fosse folle in modo più realistico di me. Comunque, non gli ho mai chiesto il permesso di fare una cosa: ho sempre fatto quello che ho voluto. E lui, pur essendo il mio produttore, non sapeva neppure quello che facevo”.

Relativamente alle due parti, ben distinte, in cui El Topo è stato realizzato:

“Tutto il “girato” è consecutivo, in una sola esecuzione. Anche perché nella prima parte avevo i capelli lunghi e la barba; nella seconda, invece, ero completamente rasato. A parte questo, comunque, ho girato El Topo come fosse L’Odissea o una conquista di Alessandro Magno. Ho cominciato. E sono andato avanti così”.

Le quattro storie dei maestri che articolano la storia del film:

“Penso ai quattro maestri come a dei simboli. Non puoi trovare un maestro, è lui che trova te. C’è una storia di Farid al-Din ‘Attar. Un asceta musulmano piange e un altro gli chiede: “Perché piangi?“. Risponde: “Perché ho bisogno di Dio ma Dio non ha bisogno di me!“. Questo è il problema: molti sono i chiamati, pochi gli eletti. Così, i maestri del mio film: mandano una luce, cercano un discepolo, e si fanno uccidere. Perché il grande dono del maestro è farsi uccidere dal discepolo, farsi mangiare dal discepolo. Così ha fatto Gesù Cristo; ha lasciato che i suoi apostoli si cibassero di lui. Quando il mio protagonista uccide i maestri, dopo, ha i maestri dentro di sé. Ma non lo sa. E non sa che soffre per questo. E quando lo realizza diventa la somma di tutti e quattro i maestri.

Lo stesso principio, in fondo, che s’intuisce ne La montagna sacra. L’uomo non è mai uno, bensì è “quattro”. Quattro che lo tirano in direzioni opposte. Penso una cosa, me ne piace una seconda, ne faccio una terza e quando ne parlo diventa una quarta. L’uomo vive la sua esistenza nell’illusione di vivere una condizione di potere assoluto. Il suo cervello s’illude di spiegare il mondo, invece ne inventa solo il linguaggio. Così come è una lampadina, ossia un oggetto inutile senza l’elettricità. Il cuore, centro di amore e di odio, vuole capire tutto, vuole conoscere tutto, per istinto. E invece conosce solo l’istinto, vale a dire se stesso. Il sesso, che suscita il desiderio, crede di essere la vita, ma la vita è troppo vasta e il desiderio conduce alla morte. E poi c’è il corpo: limita lo spazio al proprio spazio fisico. Vuole solo il riposo, il piacere, la disobbedienza. E invece, dato che è sempre a lavoro, deve imparare ad obbedire, ad accettare una disciplina. Trovo assurdo ragionare come se tutto fosse definitivo. Tempo fa, alle Hawaii, sono comparse improvvisamente delle nuove specie di uccelli, La natura continua a creare sempre. I nostri figli, un giorno, saranno molto diversi da noi. Ci saranno ancora molte rivoluzioni. Ma saranno rivoluzioni biologiche”.

Alejandro Jodorowsky ha sempre ammesso che, come autore, il rischio più grave che potrebbe correre sarebbe quello di mettersi a predicare.

Pubblicazioni di riferimento: 7 domande a 49 registi di Gian Luigi Rondi (SEI Ed.) , Cineforum (AA. e Nrr. VV.), Filmcritica (AA. e Nrr. VV.), Positif (AA. e Nrr. VV.), Chaiers du cinéma (AA. e Nrr. VV.), Bianco e nero (AA. e Nrr. VV.).

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