ROGER VADIM, UOMO INDOMITO, REGISTA INQUIETO

Regista del cinema francese nato a Parigi da una famiglia di emigrati russi, esponente fra i più noti, nell’immediato Dopoguerra, della «gioventù bruciata» della Rive Gauche parigina; il primo film di Roger Vadim come regista nel 1956, Piace a troppi, protagonista Brigitte Bardot che aveva sposato nel 1952. Uno dei suoi film più rilevanti è Una vita bruciata (1974), non solo diretto ma anche prodotto e interpretato.

Come mai, questa volta, oltre che regista, è anche il produttore del film, e il protagonista?

    «Anche se tutti dicono il contrario, il successo è una cosa orribile perché, dopo qualche anno, se vai a far leggere un soggetto a un produttore, ti senti dire: “Attendo, sai, il Vadim che piace al pubblico è quello del ’62, quello de Il vizio e la virtù; perché vuoi cambiare strada?”. Poi, appena hai cominciato a girare, ecco un altro che ti dice: “Ma perché vuoi quell’attore? Lo sai che a te va bene solo se prendi un’attrice che sia tua moglie o una tua amante!”. E ancora: “Ma perché questo stile così diverso? Vadim, ricordati del ’57, de Gli Amanti del chiaro di Luna. Quello era la stile con cui avevi tutti dalla tua!”. E così uno deve passare un anno e mezzo della propria vita a convincere un produttore per far quello che si sente di fare. Con il risultato che, quando ci è riuscito, ha dimenticato quello che voleva fare. Allora ho deciso di fare il produttore di me stesso: per fare solo quello che mi sentivo di fare, senza attrici di fama, senza attori conosciuti. Non è stato facile, perché non capisco quasi niente di finanze, ma ci sono riuscito; mettendocela tutta, naturalmente, perché trovare il denaro per fare un film non è un giochetto da poco. Comunque mi è andata bene. E ho fatto come volevo, in perfetta libertà. Anche per quel che riguarda gli attori. Non è stato per esibizionismo che mi son data la parte del protagonista; il personaggio è quello di un autore e non ho mai visto un attore al cinema interpretare bene la parte di un autore. François Truffaut, in Effetto notte, la parte del regista se 1’è interpretata da solo; e con quella verità che ha visto. Ma poi, gli attori! Diciamolo pure, una volta tanto, ma lei crede proprio che un attore sia capace di essere “sincero”? No, e l’esempio tipico è quello del sesso e dell’amore “recitati” sullo schermo. Dov’è la sincerità in tutti quei baci, in tutte quelle tenerezze intime quando, attorno, l’attore e l’attrice hanno almeno una trentina di persone, con macchina da presa, riflettori, apparecchi fotografici e magari anche dei giornalisti con penna e taccuino?».

E cosa è questo… Una vita bruciata?

    «Una variazione sul tema della libertà. Oggi viviamo in un mondo che sta andando verso l’insettoide. Gli insettoidi sono tutti quegli uomini e quelle donne che si rassicurano a contatto con quelli che la pensano come loro: borghesi, trotzkisti, maoisti, boys-scout, chiunque. È il “gruppo” che ci rassicura. In un mondo in cui la storia cambia alla svelta, solo pensandola come gli altri ci si sente sicuri. Io, questo modo di essere, e di vivere, lo chiamo la rassurette, il rassicurarsi a fianco a fianco con gli altri, con la massa. L’ho vissuta da vicino, io, questa esperienza, proprio con la mia ex moglie Jane Fonda. Lo sa perché adesso vive tranquilla e sicura? Perché fa la rivoluzione; come tutti. Era ed è la tipica donna americana con dei problemi esistenziali puritani, del genere: “Per vivere bene, la mia vita deve servire a qualche cosa“. Ha provato con il matrimonio. Non le è bastato. Un figlio? Non le è bastato. Essere attrice? Non le è bastato. La rivoluzione, quella sì. Ma quale rivoluzione? La “rivoluzione americana” che lei crede che sia davvero una rivoluzione e che, difatti, le ha fatto benissimo. Ma dove la porterà? Ha visto, vero, il disastro di McGovern?»

E dal punto di vista dello stile, del linguaggio com’è questo suo nuovo film?

    «Ho fatto il produttore per poter cambiare, per essere quello che voglio essere. Ma lo stile, i problemi di fondo, restano per me quelli di sempre. Mi interesso, come al solito, ai rapporti fra un uomo e una donna, al loro linguaggio. In Piace a troppi, il linguaggio di una ragazza. In Un colpo da due miliardi (1957), quello dei ragazzi. Nel Riposo del guerriero (1962), quello della coppia. Le analisi psicologiche (attraverso i comportamenti, però, non attraverso gli stati d’animo), mi interessano più della tensione drammatica che nasce da un’azione troppo movimentata. Sono refrattario al realismo dell’immagine, ho bisogno di avere dei personaggi ed un contesto moderno, ma debbo sempre trasporli, esaltandoli attraverso un’interpretazione lirica o romantica. Non mi piace il sordido, lo sporco. Se dovessi girare una scena in un ambiente squallido, mi metterei subito a giocare con il bianco del muro. In questo Una vita bruciata (La jeune fille assassinée, titolo originale), ad esempio. C’è persino una scena di necrofilia, ma sarà tenerissima e romantica. Romantica, soprattutto, perché il Romanticismo aveva un senso profondo, ed altissimo, della morte».

Cosa chiede al cinema?

    «Un po’ più di clemenza per il sogno. Vorrei che in un mondo in cui il metro quadrato diventa sempre più stretto e in cui gli uomini vivono sempre più ammucchiati, il cinema sostituisse con il sogno, lo spazio che manca a tutti. È il minimo che il cinema possa fare per gli uomini. Le autostrade, ad esempio. Sono piene di milioni di automobili cui il traffico e i divieti di velocità limitano ormai senza speranza l’avventura. Vorrei che il cinema, con i suoi sogni, ridesse la felicità dell’avventura a quelli che non possono essere più felici con la tecnologia».

E questo, il cinema di oggi, lo sta facendo?

    «No. Sono troppi gli autori sottomessi del tutto alla moda. E la moda, oggi, è il “sociale”, la Pop Art, l’assurdo. Non l’assurdo dei dadaisti, magari; no, l’assurdo quotidiano, quello… scatologico, o quello della pappa del bambino, o del sesso della mamma visto dal ragazzino attraverso lo specchio della stanza da bagno. Non che mi strappi i capelli per questo, sono contro qualsiasi forma di censura, ma mi sembrano cose deliquescenti. Non decadenti, deliquescenti. Tutto quello che è scatologico è deliquescente, sono cose della preadolescenza, certuni le etichettano come intelligenti, i borghesi dicono che sono orribili, ma a me, francamente, sembrano solo delle cose poco serie, dei giochetti per ragazzi. La grande abbuffata (1973), per esempio. Mi ha anche divertito, ma non è seria. Tutto quello scatologismo, se vuole, può essere un problema per mia figlia – sul suo vasetto, a cinque anni – ma non per Marco Ferreri; o per Michel Piccoli; o per Marcello Mastroianni. Roba da bambini, insisto, che non può interessare i grandi. Ricorrervi, significa soltanto strumentalizzare, in vista di un certo successo, quella buona dose di infantilismo che molti attribuiscono ancora al pubblico. Lo può fare chiunque, ma ai danni del pubblico, allora. Il cinema, invece, è un’arte che deve indirizzarsi a tutti, anzi, non è neanche un’arte, è un mezzo di espressione popolare. Il miracolo del cinema è la diffusione, ma per compierlo bisogna esprimervi delle idee che possano essere assimilate da tutti; e a tutte le età».

E lei, in questo cinema di oggi, come si colloca?

    «Io non ho bisogno di nessuno. Sono me stesso e basta. Ho imparato da ragazzo, durante 1’occupazione, che i comunisti e i gollisti, prima che litigassero ira loro, erano insieme dalla parte giusta e che gli ebrei erano uguali a tutti gli altri, nella forza come nelle debolezze. Da allora non ho più niente da imparare. Adesso, come regista, me ne infischio. Se in Francia mi rompono le scatole, vado in America; se mi scocciano in America, verrò a lavorate in Italia, se in Italia non va, lavorerò in Giappone. Non ho legami da nessuna parte, posso vivere dovunque. Se parlo, parlo per gli altri; io, per quel che mi riguarda, so perfettamente quello che voglio, so quello che farò e lo farò sempre. La libertà, il mondo ha solo vent’anni per godersela; e per vent’anni ancora saprò cavarmela».

E la politica?

    «Sono un uomo di sinistra, anche se le mie idee non si vedono molto nei miei film (salvo, forse, in una pittura disinvolta o crudele di una parte della società borghese e nella descrizione simpatica degli eroi amorali). Giscard d’Estaing è cugino di mia moglie. Gioco a scacchi con lui, siamo amici. Quando si è presentato alle elezioni presidenziali, al primo turno ho votato Mitterrand. che, fra l’altro, era stato il mio avvocato difensore al processo che mi intentò la Société des Gens de Lettres (In Francia è la sola associazione d’autori gestita dagli autori, che opera per difendere il diritto morale, gli interessi patrimoniali e lo statuto giuridico e sociale di tutti i letterati. Esercita un’azione di vigilanza, di riflessione e di proposte di leggi e vantaggi nuovi a beneficio della comunità degli autori.) per Relazioni pericolose (1959). Quando però ho visto come Giscard d’Estaing, da solo, faceva fuori 1’UDR, allora, nonostante le mie idee di sinistra, al secondo turno ho votato per lui: sperando che per la Francia possa rappresentare una nuova e felice avventura liberale; ed umana. Purtroppo, conoscendolo bene, so che non ha idee molto precise in fatto di cinema e di televisione. Per quel che riguarda la censura, comunque, ci aiuterà, perché è un liberale. Negli altri campi non credo, perché è un tecnocrate e forse rimarrà tale. Gli fa piacere che gli intellettuali abbiano simpatia per lui, ma forse non farà niente per loro. Una cosa, comunque, dovrebbe fare (anche se non so se gliela suggerirò proprio io durante una delle nostre partite a scacchi): non lasciare gli intellettuali fuori dagli uffici dei funzionari che debbono prendere decisioni sul cinema e sulla televisione. Perché le cose vanno male in Francia in questo settore? Perché in televisione ci sono solo degli imbecilli che considerano gli autori i loro nemici numero uno; e che fanno tutto da soli, con l’esperienza dei burocrati. E così in tutti i rapporti fra lo Stato e il cinema. Gli autori, invece, quando si tratta del loro lavoro, dovrebbero essere loro a guidare le decisioni, a consigliare, a illuminare. Nell’industria automobilistica chi decide sul nuovo tipo di poggia-teste anti-choc da inserire sulle auto ultimo modello? Il direttore generale? lui firma, ma a suggerirglielo sono i competenti, i tecnici. Ecco cosa dovrebbe fare Giscard d’Estaing per il cinema e per la televisione: le idee, i consigli farli dare dai competenti, dai tecnici, non dai burocrati. Come invece succede oggi; e con i risultati che sappiamo ».

Pubblicazioni di riferimento: Positif (AA. e Nrr. VV.), Image et son (AA. e Nrr. VV.), Chaiers du cinéma (AA. e Nrr. VV.), Cinématographe (AA. e Nrr. VV.), 7 domande a 49 registi di Gian Luigi Rondi (SEI Ed.)

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