PIRANDELLO E IL CINEMA MUTO

Ideale pendant cinematografico di Verga, il premio Nobel per la letteratura nel 1934 Luigi Pirandello (Girgenti – oggi Agrigento – 1867-1936) quasi un regista mancato, proprio negli anni immediatamente precedenti la morte dello scrittore etneo, piuttosto tardivamente inaugura con il cinema rapporti da subito, se possibile, ancor più ambigui e tormentati di quelli del conterraneo catanese.

    L’Agrigentino è già autore del romanzo I quaderni di Serafino Gubbio operatore (1915) pubblicato a puntate sulla “Nuova Antologia” e poi in volume l’anno successivo, dove denuncia freddamente “l’impassibiltà della macchina da presa, davanti a tutto ciò che si svolge dinnanzi…impassibilità che sempre meglio si rivela nell’indifferenza al mondo esterno e alle passioni degli uomini via via acquistata da Serafino…1. In appena un biennio (1920-21) Pirandello assiste, falsamente impassibile, alla realizzazione di ben cinque film ispirati ai suoi racconti. Lui che del cinema aveva scritto, sempre in Serafino Gubbio operatore: “Come prendere sul serio un lavoro che altro scopo non ha, se non ingannare – non se stessi – ma gli altri? E ingannare mettendo su le più stupide finzioni, a cui la macchina è incaricata di dare la realtà meravigliosa”. Ma sempre lui, incarnazione paradossale dei suoi stessi paradossi, considerato il più cinematografico degli scrittori 2.

    Primo “numero” della serie filmica muta pirandelliana ad ottenere il visto censura (1 gennaio 1920) è Il crollo (1920) regia del non eccelso Mario Gargiulo, prodotto dalla Flegrea-film di Roma e ricavato dall’atto unico Lumìe di Sicilia, ripreso da Pirandello anche in versione teatrale dialettale3 e annunciato in precedenza come Sono lo sposo di Teresina, poi come Lumìe di Sicilia e infine come Il crollo. Interpreti principali: Tina Xeo, la bella moglie dello stesso Gargiulo, nei panni della spregiudicata e irriconoscente Teresina e Alberto Francis (Micuccio Bonavino). Ormai salda consuetudine, nonostante sia trascorso poco meno d’un ventennio dalla nascita del cinema e ancor meno dell’industria cinematografica, il film introduce nel finale tra le altre varianti una modifica solo apparentemente insignificante: carica d’ira furente, fortunatamente scevra da coltellate ma ad un passo dal delitto, il buon Micuccio nella novella tutt’altro che rabbioso, il quale ritrovata la sua Teresina – da lui mantenuta con mille sacrifici agli studi – celebre e corrotta, si limita soltanto a piangere e sospirare. Ritenendo probabilmente lo scatto collerico più consono alla bollente caratterialità sicula, Gargiulo non s’accorge di svuotare di significato la novella “e disperde l’amara e insieme bonaria filosofia dello scrittore”4 contenuta di contro nel pianto dimesso sulle scale del pover’uomo sconfitto, che ha portato dalla Sicilia una cesta di lumìe (limoni, non arance come sempre erroneamente pubblicato) subito gioiosamente offerte dalla scollatissima e spregiudicata Teresina ai suoi ospiti, la quale ignorando beatamente il dolore dell’amico, le presenta agli amici gridando allegramente: “Lumìe di Sicilia, lumìe di Sicilia!”5. Questa la fine immaginata da Pirandello. Quale invece la chiusa del film di Gargiulo? Micuccio fuori di se “serra spasmodicamente fra le sue rustiche mani il niveo collo dell’attrice fedifraga”6, ora in arte divenuta Sina Marnis, per cui si chiede cogitabondo il recensore, sconvolto da una spiazzante anticipazione del cosiddetto “finale aperto”, cosa penserà il pubblico lasciato nel dubbio se ella sopravviverà o meno?

    Il successivo Lo scaldino (1920, produzione Itala-U.C.I.) affidato all’esperto Augusto Genina, prolifico e già famoso regista romano, una delle più rilevanti personalità del cinema italiano – che, critica docet, si muove con “competenza lodevole” – affronta invece l’abusato tema della vendetta per amore, allestito ancor più melodrammaticamente perché complicato dalla presenza d’una innocente frugoletta. Rosalba Vignas (Kally Sambucini), una chanteuse abbandonata dall’amante Cesare (Franz Sala) per una collega più giovane, con l’animo carico di vendetta attende l’uomo nascosta in un chiosco gestito da Papa-Re (Alfonso Cassini). Quando l’amante esce lo uccide e fugge mentre la bimba, figlia di Cesare che ne ha negato la paternità, ignara resta addormentata tra le braccia del vecchio Papa-Re, tipico personaggio pirandelliano sul quale ruota la breve novella mentre nell’opera di Genina, acuto conoscitore del gusto popolare, maggior rilievo è con giusto intuito cinematografico assegnato a Rosalba. Lo scaldino vero, accidentalmente rotto poco prima dalla nipote di Papa-Re, diventa così la povera creaturina abbandonata “sulle gambe come un involto, caldo, caldo” di Papa-Re, che amorevolmente si china su di lei quando i colpi assassini della madre colpiscono il seduttore. “La novella di Pirandello è vecchia, l’argomento trito; ma l’arte di Genina è riuscita a ringiovanire la novella e a rendere originale la trama…un film eccellente”7. Tra tutti i film pirandelliani del periodo muto, Lo scaldino l’unico miracolosamente ritrovato anni fa in Russia, e presentato alle Giornate del cinema Muto di Pordenone nel 1989. Altri interpreti: Ria Bruna (Mignon, la chanteuse), Léonie La Porte, Leone Paci. (1 puntata)

    Non sfugge alla regola dello stravolgimento della fine letteraria anche il terzo film editato nello stesso anno: Il lume dell’altra casa (1920, prodotto dalla Silentium-film di Milano, la stessa di Verga) ricavato dall’omonima novella, diretto e interpretato dal fiorentino Ugo Gracci, prematuramente deceduto nel 1937, confronto-scontro tra affetti familiari e solitudine che subisce con il suicidio dei due amanti una moralistica (e inutile) variante conclusiva. Morendo i due compagni illegittimi pagano con la vita la peccaminosa relazione, iniziata timidamente spiando dalla finestra d’una pensione l’ordinata esistenza d’una famiglia, poi proseguita con una fuga e finita in pentimento. Evidenti le analogie del recente La finestra di fronte (2003) di Ferzan Ozpetek con la novella pirandelliana, ma passate del tutto inosservate8. Classica l’evoluzione del climax: passione-colpa-pentimento-castigo. Nessun birbante pensi di farla franca violando la domestica sacralità, ma l’ultima sequenza del film di Gracci (il doppio suicidio) pesantemente sforbiciata dalla censura paradossalemente ne sfarina l’intensità drammatica, già comunque magistralmente resa dalla scrittura pirandelliana. Interpretato da Margot Pellegrinetti (Margherita) e dallo stesso Ugo Gracci (nei panni di Tullio Buti, un impiegato del Ministero), la famiglia scenica è nepotisticamente, immutabile costante del cinema italiano oggi ancor abbondantemente praticata, completata con le vere tre figlie del regista, Graziella, Gavetta e Anna Gracci.

    “È un lavoro interessante e geniale. Ugo Gracci che ne ha curato la riduzione e diretto l’esecuzione cinegrafica, può essere lieto ed orgoglioso anche di quest’altra sua fatica d’arte che lo pone, agli occhi delle persone dabbene e intelligenti, nel numero esiguo dei più valenti nostri direttori artistici… Quest’opera, tratta da una delle più drammatiche novelle di Luigi Pirandello, è un capolavoro di buon gusto, di equilibrio e di armonia…si scorge si sente la mano intelligente, la guida ardente ed amorosa di questo giovane e vigile artista, a cui la fortuna e il compiacimento degli uomini non hanno ancora arriso…9.

    L’anno seguente vede la luce La rosa (1921) diretto da Arnaldo Frateili (che aveva già collaborato con Genina alla regia de Lo scaldino) e sceneggiato dal figlio dello scrittore agrigentino, a sua volta scrittore, Stefano Landi, esile e delicata vicenda della giovane e bella vedova Lucietta (Olimpia Barroero) che, corteggiatissima ed esposta ai “brutali appetiti” degli assatanati paesani, alla fine sceglie come nuovo compagno un timido segretario comunale (Lamberto Picasso) donandogli una rosa. Nel cast curiosamente appaiono il musicologo Bruno Barilli e Gabriele Baldini (il figlioletto di Lucietta), divenuto poi letterato10. Non sfugge anche stavolta all’analisi del film l’importanza dell’infedele conclusione del racconto, elemento centrale della poetica pirandelliana: “La rosa è una novella pirandelliana, cioè una novella ove tutto lo spirito è nello scorcio del racconto e nell’episodio finale… ma i signori della Tespi mi ci fanno cinque atti e ci mettono dentro Olimpia Barroero…”11. La novella infatti si chiude non con l’amore in boccio, ma con l’amor perduto. Nello stesso anno Frateili abbandonerà definitivamente l’attività registica per tornare al giornalismo, divenendo scrittore, critico letterario, cinematografico e teatrale.

    Penultimo ultimo prodotto dell’intenso biennio: Il Viaggio (1921) diretto dall’eclettico salernitano Gennaro Righelli, altro prestigioso nome di sicuro richiamo che ne aveva acquistato i diritti anni prima, clamoroso successo di quel decennio e che nel 1974 diventerà anche l’ultima, stanca e dimessa, regia di Vittorio De Sica – egli stesso insoddisfatto del risultato e delle scelte attoriali – con interpreti del tutto fuori parte. Sgradevolmente assortita e sbagliatissima, nel film di De Sica, proprio la coppia dei comprimari: Richard Burton nei panni di Cesare, l’uomo che s’innamora della cognata Adriana e la stessa Sophia Loren, rimasta vedova e minata da un male incurabile, alla fine stroncata da un infarto nel film, suicida nella novella, dopo una breve e travolgente stagione d’amore vissuta con il cognato di cui è da sempre innamorata. “Avrei voluto fare un film aderente allo stile della novella di Pirandello che poteva benissimo essere un’altra donna e non Sophia Loren… un’attrice estroversa e non così introversa come l’Adriana di Pirandello”12 confesserà De Sica, qui clamorosamente smentito dalla Loren che ne parla in termini entusiastici ed esalta un film scialbo e crepuscolare come il carismatico suggello della carriera del regista di Sora13. Tornando al muto, il lungo sfruttamento commerciale del film di Genina, rispettoso della novella anche nella chiusa, con Adriana suicida (Maria Jacobini, compagna del regista nella vita, conosciuta alla “Tiber”), mostra inequivocabilmente l’alto gradimento di pubblico e critica, quest’ultima quasi unanimemente paga ma tutt’altro che beota, anzi argutamente pronta a rilevare la trasformazione dell’enfasi recitativa, tipica del muto, nella più pacata e incisiva espressività psicologica, resa attraverso quella “microfisionomia” che sarà al centro negli anni ‘30 della riflessione estetica del teorico-sceneggiatore ungherese Béla Balàzs14:

    Dirò anzi che le vicende animose di questa visione non hanno vita nei luoghi o nelle azioni degli interpreti, ma rilucono tutte soltanto nelle fisionomie dei due interpreti principali: Maria Jacobini e Carlo Benedetti. E tanto più è prodigiosa la loro interpretazione, per quanto essi non accennino menomamente ad accentuare le gradazioni delle loro movenze o a violentare l’espressione della loro ambascia. Essi, anzi, fanno studio di parsimonia nel gestire. La disperazione ha effige di marmo; l’angoscia ha vita nell’immobilità…Dramma fine, possente, che costringe alla commozione sincera, sentita, intensa… È un lavoro degno di essere presentato ad esempio dell’arte italiana15.

    Da lì a poco un esercito in male arnese in camicia nera marcia su Roma (28 ottobre 1922), trova le porte spalancate e questa volta senza colpo ferire, con la benedizione del Savoia di turno, entra trionfante nella capitale. Dopo anni di violenze contro gli avversari, all’ex socialista rivoluzionario Benito Mussolini, capo supremo degli squadristi, sua maestà Vittorio Emanuele III offre su un piatto d’argento l’incarico di formare il nuovo governo. Nel giro di pochi anni vengono rapidamente cancellate tutte le libertà democratiche mentre Pirandello, stregato e abbagliato dal Duce in cui vede l’incarnazione della “doppia e tragica necessità della forma e del movimento>>16, ne diviene il <<più umile e obbediente gregario”, chiedendo l’iscrizione al Partito Nazionale Fascista proprio all’indomani del delitto Matteotti, quando tutto il paese è scosso da un fremito d’indignazione17. L’adesione al fascismo del nostalgico conservatore siciliano, se non politicamente reazionario, Luigi Pirandello pur impressionante non deve stupire. Il suo spirito refrattario alla democrazia è tutto in nuce e già chiaramente espresso nel romanzo Il fu Mattia Pascal, scritto nel lontano 1904 in cui egli individua proprio nella democrazia la genesi di tutti i mali, sebbene ugualmente in molti si siano arrovellati sulle origini di questa sconcertante adesione del premio Nobel all’ideologia violenta ed antidemocratica del fascismo18. Proprio durante il ventennio la fama dello scrittore si espande a macchia d’olio in Europa e nel mondo, giungendo fragorosamente fino alle soglie di molte cinematografie d’altri Paesi.

    Tra le tante versioni mute del cinema straniero tratte da Pirandello, che generosamente e beffardamente “non diceva mai di no alle proposte di trasporre sulle schermo le sue opere sia narrative che teatrali”19, celeberrima resta quella de Le feu Mathias Pascal (1925) di Marcel L’Herbier, interpretato dal grande attore russo Ivan Mosjoukine e sfociata anch’essa, ma con la totale adesione dello stesso Pirandello (che fa da consulente), in un beffardo happy-end cinematografico: Mattia ritrova la propria identità e sposa Adriana. Insomma, tarallucci e vino. Meno noto il tedesco Die flucht in die nacht (letteralmente: La fuga nella notte, 1926) per la regia del fertilissimo Amleto Palermi20, momentaneamente riparato come tanti in Germania durante la crisi, con il catanese Oreste Bilancia nei panni di Belcredi, prodotto dalla Nero Film di Berlino, sceneggiato dallo stesso Palermi e Adolf Lantz. Rispettoso dello spirito pirandelliano, dell’atmosfera.

    dell’estraneamento dai tempi, dalla società, dalla storia” ma dove come accadrà molto più esasperatamente nel film di Pàstina del 1944, c’è una notevole forzatura (rispetto al dramma) nella direzione del contrasto di Nolli-Belcredi, contrasto che comincia già nelle scene iniziali del corteggiamento (che manca assolutamente in Pirandello)…21

Ma a Pirandello e in modo massiccio allo spirito pirandelliano, il cosiddetto “pirandellismo”, ossia “l’influenza diretta del nostro autore su tutta l’arte del XX secolo e quindi anche sul cinema”22 (si pensi, tra gli innumerevoli esempi possibili, al recente American Beauty, 2001, di Sam Mendes dove tutti i personaggi vivono tra essere e apparire, oppure all’eterna “lezione” impartita dal “Così è se vi pare”), a Pirandello dunque si tornerà negli anni della “stabilizzazione del consenso”, al fascismo delle radunate oceaniche e a “Sua Eccellenza” Benito Mussolini, “uomo della provvidenza” che della cinematografia farà “l’arma più forte”; quindi ancora nel dopoguerra e, in misura più o meno corposa, in tutti i decenni successivi e in tutte le cinematografie mondiali, in pratica senza alcuna soluzione di continuità, a dimostrazione della sconvolgente modernità e perennità dell’intera sua opera. Molti anche i progetti “pirandelliani” irrealizzati, pensati sia durante il muto che dopo il 1930. Ulteriore riprova della spasmodica attenzione cinematografica verso la gigantesca produzione letteraria dell’Agrigentino23.

1 M(ario) A(licata), Quaderni di Serafino Gubbio operatore, in <<Dizionario Bompiani…>>, cit. p. 7703; l’indifferenza di Serafino Gubbio <<simbolo stesso dell’arte immobile ed eterna>>, come è noto, lo porterà a respingere anche l’amore di Luisetta.

2 Per un’analisi, per così dire globale, dei rapporti tra Pirandello e il cinema, v. N. Genovese, Quel ragno nero sul treppiedi, in AA.VV. , La musa inquietante di Pirandello: il cinema, Bonanno Editore, Acireale, 1990, pp. 11-31.

3 S, Zappulla Muscarà (a cura di), Luigi Pirandello. Tutto il teatro in dialetto, Bompiani, Milano, 1993, 2 voll.

4 A. Spada, <<Film>>, Napoli , luglio 1920.

5 <<Lo scatto d’ira di Micuccio, egregio Gargiulo, vi guasta il personaggio che avevate bene dedotto…>>, scrive Aurelio Spada in <<Film>>, Napoli, luglio, 1920; in V. Martinelli, Il cinema muto italiano 1920, cit., p. 84.

6 P. Fasanelli, <<La Cine-Fono>>, Napoli, 1920, n. 419, 1-15 agosto 1920.

7 G. Giannini, <<Kines>>, Roma, 5 marzo 1921.

8 Lo spunto di partenza c’è tutto; poi le varianti, ovviamente, ne mutano il costrutto narrativo. Innumerevoli nel cinema gl’incipit pirandelliani. Un altro esempio potrebbe essere: Venga a prendere il caffè da noi (1971) dal romanzo di Piero Chiara <<La spartizione>>, chiaramente derivato dalla novella <<Tutto per bene>>.

9 G. Lega, in <<La Cine-fono>>, Napoli, n. 442, 25 gennaio 1922; sta in V. Martinelli, Il cinema…, cit., p. 192 che riporta anche un giudizio di tutt’altro tenore di M.T.F. tratto da “La rivista cinematografica”, Torino, n. 23, 25 dicembre 1922, secondo cui <<…è l’impasto generale del lavoro, che in termini più semplici, ha finito col mancare di linea e di significato, per non aver dimostrato, in fondo in fondo, nulla di quanto si era prefisso il soggettista…>>.

10 Cfr. C. Bragaglia, Il piacere…, cit., p. 62.

11 A. Spada, in <<La rivista cinematografica>>, Torino, n. 15, 10 agosto 1922, il quale lamentando la prolissità e l’interpretazione della Borroero (<<non ha alcuna attitudine pel cinematografo>>) conclude sconfortato: <<Non occorre dire che ne è venuta fuori una lamentevole cosa>>; sta in V. Martinelli, Il cinema…1921, cit., p. 286-287.

12 Intervista rilasciata da De Sica a Gian Luigi Rondi, “Il Tempo”, 27 marzo 1974.

13 Cfr. <<Bianco e Nero>>, n. 22, 1975.

14 Cfr. B.Balàzs, Estetica del film, Editori Riuniti, Roma, 1975.

15 E. Pastori in <<La vita cinematografica>>, Torino, n. 3, 15 febbraio 1923; sta in V. Martinelli, cit., p.358

16 La vita creata, corsivo di Pirandello apparso il 28 ottobre 1923 in occasione del primo anniversario della marcia su Roma su <<L’idea nazionale>>, organo dei nazionalisti alleati dei fascisti.

17 Questo il testo del telegramma inviato da Pirandello a Mussolini il 17 settembre 1924: <<Eccellenza, sento che questo è il momento più proprio di dichiarare una fede nutrita e servita in silenzio. Se l’Eccellenza Vostra mi stima degna di entrare nel Partito Nazionale Fascista, pregierò come massimo onore tenervi il posto del più umile e obbediente gregario. Luigi Pirandello>>.

18 Nell’undicesimo capitolo del romanzo Mattia Pascal incontra un ubriaco a cui rivolge, tra l’altro, queste parole: <<Ma la causa vera di tutti i nostri mali, di questa tristezza nostra, sai qual è? La democrazia, mio caro, la democrazia, cioè il governo della maggioranza. Perché, quando il potere è in mano ad uno solo, quest’uno sa d’essere uno e di dover contentare molti; ma quando i molti governano, pensano soltanto a contentar se stessi, e si ha allora la tirannia più balorda e più odiosa: la tirannia mascherata da libertà…>>. Corrado Alvaro, nella prefazione alle <<Novelle per un anno>> così scrive nel 1957 a proposito delle ragioni del consenso pirandelliano: << Era un uomo di prime impressioni e di impulsi, forse di risentimenti che si contrastavano e mutavano di continuo, e infine si placavano. Per giudicarlo sotto questo aspetto, bisogna tenere a mente un uomo che dalla quasi oscurità di cinquanta anni di vita è sbalzato ad una fama abbagliante; il momento di questa fama coincide con l’avvento di un regime politico che, per calcolo, gli elargisce grandi onori. Bisogna pure ricordare lo sdegno di quel tempo, in molti uomini di cultura, verso la democrazia. Era il retaggio d’una ribellione estetizzante che nella cultura italiana fece non poche vittime, e che lasciò il paese nella sua crisi più profonda, senza guide né punti di riferimento>>; cfr. L.Lucignani, Pirandello, la vita nuda Giunti, Firenze, 1999.

19 D. Meccoli, Contributo alla cinematografia degli autori siciliani di teatro, in Il teatro e i teatranti siciliani nel cinema, Teatro Stabile di Catania, Catania, 1981, p. 12, che così seguita: <<Certo, non era soddisfatto delle manomissioni ma, secondo una testimonianza di Arnaldo Frateili, “pareva accontentarsi, e approvava, e magari lodava”. C’era forse indulgenza nel suo comportamento, e forse c’era, al fondo l’idea che del cinema si era fatta frequentando la Cines e l’ambiente al tempo di Martoglio…come se dentro di se dicesse: “Tanto peggio per il cinema” >>.

20 Per completezza d’informazione tra gli altri film di produzione straniera tratti da Pirandello e non citati nel corso del testo, si possono ricordare: This love of ours (Questo nostro amore, 1945) di William Dieterle; Vacaciones en el otro mundo (Vacanze nell’altro mondo,1942, di Mario Soffici; Como tu me quieres (1944) di Belisario Villar Garcia; Asy te deseo (Come tu mi vuoi, 1948) di Belisario Garcia Villar, stesso film del precedente rilanciato da altra produzione; Never say Goodbye (Come prima, meglio di prima, 1956) di Jerry Hoppner; Todo serà para bien (Tutto per bene) di Carlos Rinaldi. Tra i documentari: Luigi Pirandello: la sua terra, i suoi personaggi (1961) di Mario Baffico.

21 M. Cardillo, Lo schermo e la follia. Tre versione cinematografiche dell’ <<Enrico IV>> di Luigi Pirandello, in La musa inquietante…, cit., p. 196

22 T. Kezich, Mattia Pascal: uno, due, tre in AA.VV., Omaggio a Pirandello (a cura di Leonardo Sciascia), Almanacco Letterario Bompiani 1987, Bompiani edizioni, Milano, 1986, p. 80.

23 Cfr. T. Kezich, Il pipistrello uno e due, in <<Ariel>>, A.I.N. 3, settembre-dicembre, Bulzoni editore, Roma, 1986 (numero speciale dedicato a Pirandello nel cinquantenario della morte); v. anche A. Farassino, Donna Mimma e Nascere. Nota su un film pirandelliano mai realizzato, in <<Rivista di studi pirandelliani>>, A, IV, n. 1, marzo 1984; entrambi ora anche in AA.VV. La musa inquietante…, cit.

24 Il primo film sonoro italiano è in realtà Resurrection (1930) di Alessandro Blasetti, editato però l’anno successivo.

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