UMBERTO LENZI E I GENERI (I)

Tutto il percorso cinematografico di Umberto Lenzi è pervaso da un profondo e rigoroso realismo, eredità di un’impostazione culturale quasi illuminista.

    Una tale affermazione potrebbe lasciare perplesso chiunque si limiti ad uno sguardo superficiale sulla filmografia dell’autore di Incubo nella città contaminata o Demoni 3 eppure, studiando in maniera più approfondita i suoi film, si capirà che questa affermazione non è affatto gratuita.
Dopo aver scritto per varie riviste cinematografiche, Lenzi, toscano di Massa Marittima, nei primi anni Sessanta si dedica alla regia, firmando una serie di film cosiddetti di cappa e spada tutti più o meno ispirati a personaggi storici o pseudo tali. La sua prima opera di un certo rilievo è Duello nella Sila (1962), un racconto a tinte fosche che rifiuta la strada del melodramma matarazziano puntando su uno scenario che ricorda le miserie e la disperazione di Verga, al quale lo lega anche un finale pessimista e senza speranza. Dopo questa parentesi, Lenzi affronta il mito di Salgari rileggendolo in chiave moderna e, a volte, con una vena umoristica e giocosa ben lontana dalla trita parodia. Il suo La montagna di luce (1964) possiede degli spunti che non ci vergogneremmo a definire anticipatori dello Spielberg della serie di Indiana Jones, mentre Sandokan (1963) con Steve Reeves, insieme a I tre sergenti del Bengala (1965), risulta essere uno dei migliori film salgariani mai girati. Nel 1966, attento al fenomeno di costume del “fumetto nero”, gira, primo in Italia, un film a questi ispirato, Kriminal (1967). Scritto da lui stesso, come quasi tutti i suoi film, questo divertissement si presenta come una simpatica variante del film spionistico innestato su un tema prettamente italico. La sua passione di storico, sempre alla ricerca di fonti documentative in loco (è uno dei maggiori esperti italiani della guerra civile spagnola) lo porta a firmare Attentato ai tre grandi (1967), un film bellico girato a Casablanca ed ispirato all’omonima conferenza tenuta nel 1943 da Roosevelt, Churchill e De Gaulle. Su un fatto reale, Lenzi innesta un geniale plot di fiction scardinando i canoni tuttora vigenti che vogliono i soldati tedeschi ottusi, fanatici e messi nel sacco da pochi scaltri americani. Qui i protagonisti sono i soldati tedeschi, visti per la prima volta come uomini: sicuramente figure negative, ma non macchinette senza legame con la realtà. Purtroppo lo spazio limitato ci impedisce di sviluppare più a lungo il tema dei gialli “paranoici” di Lenzi, anticipatore, insieme a Romolo Guerrieri (Girolami), del filone thriller che sarà poi celebrato da Dario Argento. Rimandiamo dunque volentieri all’indispensabile volume Profonde Tenebre di Bruschini e Tentori. Vorremmo solo dire che nei thriller di Lenzi, lo spunto di fondo è la follia. Una follia reale, patologica, legata a traumi reconditi, spiegata ed analizzata da una sceneggiatura logica e rigorosa che non si lascia trasportare da voli pindarici di immagine, ma resta al contrario legata alla realtà. I titoli che vorremmo ricordare sono sicuramente Orgasmo (1968) e Spasmo (1974). Anticipando di oltre un lustro il boom del genere, nel 1972 Lenzi firma Il paese del sesso selvaggio, primo film in assoluto sui cannibali. Girato nel sud est asiatico utilizzando l’indigena Me Me Lai, il film diverrà lo spunto per tutti i successivi lavori del genere e, visto oggi, possiede anche più di una affinità con il celebratissimo Balla coi lupi. Uno dei generi frequentati con maggior successo da Lenzi è il “poliziesco”, nel quale riesce a scoprire e celebrare il talento di Tomas Milian, creando il personaggio di Monnezza che diventerà celeberrimo. Ma i suoi film non inclinano verso la commedia, genere che non ama e per il quale non è portato, bensì verso un cupo realismo, mitigato talvolta dalla battuta rapida, funzionale alla struttura della pellicola. Precursore dei film metropolitani di Friedkin, e con qualche debito verso Melville, nei suoi momenti più felici Lenzi fa scuola ad autori come Tarantino o i fratelli Coen che sicuramente hanno visto i suoi film e li hanno amati. Lenzi ama ricordare tra i suoi lavori del genere Da Corleone a Brooklyn (1979), felice mix tra il road movie e il film di mafia nel quale si anticipa un tema di attualità come il fenomeno del pentitismo mafioso: protagonista è un credibile e tormentato boss mafioso, tratteggiato da un Mario Merola probabilmente nella sua migliore interpretazione. Nell’ultima fase della sua carriera, Lenzi firma alcune opere non disprezzabili come l’horror Demoni 3 (1990), dove inserisce un vero rito voodoo e lo slasher Paura nel buio (1990), purtroppo massacrato in fase di produzione. Ma sentiamo che ci dice lui stesso…

Umberto Lenzi: il suo primo approccio con il mondo del cinema è stato il Centro Sperimentale di Cinematografia, dove si è diplomato nel 1957… poi ha cominciato come aiuto regista…

    “Non è del tutto vero. Più che altro ero un operatore culturale, ho scritto su Bianco e Nero e altre riviste di cinema. Io non vengo dall’aiuto regia. Ho fatto pochissime collaborazioni, ho lavorato con Vivarelli, che era un mio amico. La cosa più importante che ho fatto è stata Apocalisse sul Fiume Giallo, un film con Anita Ekberg e Georges Marchal, e dopo Costantino il grande e Il terrore dei mari di Domenico Paolella. Ho scritto moltissime sceneggiature”.

Indubbiamente il suo stile di regia è stato sicuramente influenzato dai registi americani…

    “Completamente all’americana. I miei maestri sono Raul Walsh, Samuel Fuller, Edgar Ulmer, anche lui un regista dimenticato, ha girato dei capolavori… e Robert Siodmak…”

A sua volta, anche lei è stato citato da autori come Tarantino che hanno pubblicamente riconosciuto l’importanza del cinema italiano di genere. Di più, in una recente intervista, il regista americano la cita tra le sue fonti d’ispirazione, insieme a Ferdinando Di Leo, e fa un elogio sperticato a Incubo sulla città contaminata. Torniamo al suo primo film, dove fece il suo debutto italiano Lisa Gastoni. Come la scoprì?

    “Un’agente mia amica me la presentò. Ci incontrammo a via Veneto in un bar… aveva già fatto delle cose, anche un film con De Sica ma sempre in Inghilterra… poca roba però. Era sposata con un ricco magnate greco e stava partendo. Fece una scelta di vita, decise di restare in Italia e cominciò la sua carriera. Intuii subito che lei aveva delle grosse potenzialità, poi è stata male ma lavorò anche con Pasolini, con Zampa. Poteva avere una carriera più lunga, a metà anni settanta si ritirò”.

Che giudizio dà del western?

    “Più del genere amo John Ford, non mi ritengo un regista western. Ne ho fatti due controvoglia. Mi ritengo un regista di film d’azione, film di guerra e thriller. Anche gli horror li ho fatti senza amarli troppo. Propendo più per il cinema realistico che per quello fantastico. Il mio collega Lucio Fulci aspirava ad arrivare dal cinema realistico a quello fantastico, per me può essere vero il contrario. Mi scusi se salto di palo in frasca, ma preferisco così. Del resto parlare dei primi film non mi interessa troppo, li ritengo dei film di prova, forse quelli migliori sono Caterina di Russia e Duello nella Sila. Del mio primo periodo il film che ho amato e che mi ha dato di più è Attentato ai tre grandi: un film che ha vinto la medaglia d’oro della critica toscana”.

Eppure i film avventurosi ebbero moltissimo successo. Penso ai suoi film salgariani…

    “Amo il mio Sandokan, tra l’altro quelli che sono venuti dopo non è che abbiamo fatto tanto meglio e hanno ripreso l’idea fondamentale mia, quella di girare nei luoghi veri, a Ceylon, con le facce vere. Ce ne sono stati altri prima del mio, ma li facevano a Tirrenia, con tutti gli attori verniciati. Io avevo Steve Reeves nel cast, che allora era l’attore numero uno. Lo pagarono 120.000 dollari, che per allora era una cifra incredibile: il film sarà costato in tutto 400.000 dollari. Non rinnego quel film, ma non è uno di quelli che mi ha permesso di esprimermi. Io preferisco il cinema realistico, per questo amo Attentato ai tre grandi. Un film basato sulla Conferenza di Casablanca tra Churchill, Roosevelt e De Gaulle avvenuta il 25 gennaio 1943 e che gettò le basi per l’armistizio in Italia. Fu sancito in quell’occasione che né Italia né Germania potevano arrivare ad una pace di compromesso ma si sarebbero dovute arrendere senza condizioni. Girai il film nello stesso albergo dove i tre grandi si erano incontrati, avvalendomi di tutti i mezzi fornitomi dalle autorità marocchine e con persone che avevano vissuto la Conferenza. Cercando di ricreare ciò che avvenne realmente, ovviamente con un plot di finzione”.

Mi risulta che assistente alla regia era un giovane Bertrand Tavernier

    “Non è vero. Probabilmente lo avranno accreditato perché avrà curato l’edizione francese. Anche per l’edizione francese di Orgasmo è stato accreditato come aiuto regista, senza aver mai lavorato nel film”.

Zorro contro Maciste. Come arrivò ad unire insieme due personaggi così lontani sia geograficamente che cronologicamente?

    “Perché il produttore era un personaggio molto famoso, un napoletano verace, Fortunato Misiano. “Voglio fare una cosa che li distrugge a tutti!”, diceva. Io e il povero Guido Malatesta, grande amico mio sottovalutato dal cinema, si pensò che l’unica maniera di fare il film era fare come fosse una parodia. Però non potevamo farla scopertamente perché quel prodotto era diretto verso un certo pubblico che non gradiva la parodia. Per non tradire queste aspettative facemmo un’inversione di ruoli; facemmo cioè di Maciste un uomo spiritoso e molto intelligente mentre di Zorro che nella tematica normale è un uomo arguto, intelligente, si spaccia per un omosessuale, ne facemmo uno stupido, un cretino. Il risultato fu divertentissimo ed il film ebbe successo in tutto il mondo. Pure a Singapore, anni dopo, era in cartellone mentre stavo girando un film”.

I pirati della Malesia è una sorta di Indiana Jones ante litteram

    “Nonostante tutto è uno dei miei film favoriti, con delle trovate geniali come quella della sparizione del gioiello, che finirà poi alla regina di Inghilterra. Vengono esaltati i miei film gore ma questo è davvero una piccola delizia. Lo girai tutto a Singapore. Le racconto un aneddoto. Mentre giravano I pirati della Malesia, era l’estate del 1964, per fare una inquadratura della baia di Singapore ci misi dalle otto del mattino fino alle undici e trenta per preparare le giunche, gli attori, le comparse. Quando detti il ciak improvvisamente entro in campo un uomo in bicicletta, che picchiò con un bastone una delle comparse. Dopo poco arrivarono altri duecento uomini armati e scoppiò la rivoluzione, le cui conseguenze portarono al distacco di Singapore dalla Malesia. Ci furono disordini e massacri per otto giorni e noi per otto giorni rimanemmo chiusi in albergo. Le ultime riprese le girammo, scortati e protetti dalle truppe inglesi, nell’intervallo del coprifuoco in un tempio indiano. Dopo di che i parà inglesi ci misero su di un aereo e ci mandarono via. Vidi delle cose…”

Ne I tre sergenti del Bengala usò per la prima volta il suo pseudonimo Humphrey Humbert.

    “Questo film era un cosiddetto “film di recupero”, fatto cioè di pezzi scartati da altri film. Ero anche produttore di quel film e lo girammo in 21 giorni con un budget infinitesimale. L’ho rivisto poco tempo fa e di tutti i film salgariani è il migliore. Perché Sandokan è più spettacolare però è condizionato dal divo, tutto ruotava intorno a Steve Reeves. I pirati della Malesia venne pure male perché la sua agente, la moglie, volle interferire nella sceneggiatura. Secondo lei, il personaggio di Yanez poteva offuscare il marito. Avevo Andrea Bosic che era un ottimo attore proveniente dal teatro, ma la sua parte per motivi di cassetta venne a poco a poco erosa snaturando tutto il film”.

Uno degli sceneggiatori era Ugo Liberatore

    “Ottimo sceneggiatore, ma anche lui dovette uniformarsi. Purtroppo questo capita quando l’attore si monta la testa e vuole interferire in qualcosa che non gli compete. Ho avuto tanti problemi con attori per questa ragione. Infatti sa chi è il miglior regista? Colui che sa mediare meglio di ogni altro tra le varie esigenze degli attori”.

A metà degli anni Sessanta cominciò a girare film di spionaggio…

    “Erano quasi tutte coproduzioni con la Spagna, con la Francia… quello che preferisco è Superseven chiama Cairo gli altri sono molto inferiori”.

Che mi dice de La legione dei dannati?

  “Quello lo girai in una Londra bombardata che ricreai io in un quartiere in demolizione. Andammo a girare una scena sul ponte di Westminster senza alcuna autorizzazione, andammo lì la mattina e mentre io giravo il mio truccatore fermava gli autobus a due piani che passavano. Lo girammo anche a Madrid e Roma, mentre la parte navale fu girata a Taranto”.

La sceneggiatura del film è di Dario Argento. Che ricorda di lui?

    “Lavorava per la Titanus e mi ricordo che veniva spesso sul set e faceva un’infinità di domande, era curiosissimo”.

Possiamo dire che è stato lei, nel 1968, ad iniziare il genere thrilling all’italiana con Orgasmo, a cui faranno seguito Cosi dolce, Cosi perversa e Paranoia, tutti con Carrol Baker che fu da lei rilanciata in questi ruoli di donna innocente e contemporaneamente diabolica. Come nacque questa passione?

    “È molto semplice e anche complicato nello stesso tempo. Lessi un racconto giallo, del quale non ricordo il titolo, che mi colpì molto. Parlava di un uomo che rapiva una donna, la portava in casa sua e nasceva un rapporto particolare tra loro due. Siccome mi ritornava sempre questa storia della dipendenza della donna nei confronti del ragazzo, impostai la storia su questo fatto e su una storia di contestazione, lo girai alla fine del ’67. L’interprete doveva essere Eleanor Powell, poi invece Carrol Baker si trovava a Roma dove aveva lavorato con Ferreri ne L’harem. Me la presentarono, era così bella, così solare, così diversa dalla diva americana. Facemmo Orgasmo, uno dei miei film migliori, rovinato da un titolo assurdo. Il film si chiamava Paranoia, scrissi il soggetto, girai sempre con questo titolo, poi arriva alla produzione e loro dissero che paranoia somigliava troppo a noia e che nessuno sarebbe andato a vederlo. “Diamogli un titolo nuovo”, pensarono. Il titolo doveva essere I perversi e non sarebbe andata male. Fu a quel punto che il produttore lesse che si stava preparando un film dal titolo Orgasmo, un film di carattere erotico. Siccome orgasmo significa anche tensione, si dissero di chiamarlo così. E questa fu la rovina del mio film migliore. Uscì il 2 febbraio 1969 a Roma al Fiamma. La sera della prima applausi a scena aperta e il film ebbe un successo strepitoso fino a metà marzo quando durante il periodo pasquale fu deciso di toglierlo dalla circolazione a causa del suo titolo. Fece solo 500 milioni. All’estero uscì con il titolo Paranoia e fu un successo incredibile…”

In Paranoia ha lavorato anche Aristide Massaccesi

    “Si, ha fatto l’operatore alla macchina per un paio di settimane”.

Nel 1972 torna in Thailandia e gira Il paese del sesso selvaggio con Ivan Rassimov che darà il via al filone dei film sui cannibali. Come le è venuta l’idea per quel lavoro?

    “Il film mi è stato proposto… anzi, mi avevano proposto una sceneggiatura. È nato come una serie di riti inventati da Emmanuelle Arsan che era stata sposata con un diplomatico di stanza in Thailandia, e da questa idea Francesco Barilli scrisse la sceneggiatura. Io ho cambiato poche cose. Il film a me piaceva, e mi piace tuttora. È fatto bene e c’è una certa verità nella ricerca di questo mondo che si perde, questo rifiuto della civiltà. Anche in questo caso i produttori dettero al film un titolo cervellotico, perché il film si chiama L’uomo dal fiume profondo, cioè quello che è anche rimasto nelle versioni per i mercati anglosassoni, dove ebbe successo. Invece in alcuni paesi fu chiamato Mondo cannibale. Il film andò così bene, il produttore guadagnò così tanti miliardi che mi fu proposto di girare il seguito; io ero impegnato a fare uno dei film polizieschi e non potei farlo. Lo fece Deodato col titolo Ultimo mondo cannibale, ma il titolo era già stato venduto col mio nome e gli stessi attori del precedente, Ivan Rassimov e Me Me Lai. Aggiunsero Massimo Foschi ma questo glielo dico perché Deodato va dicendo che l’ha inventato lui il genere dei cannibali. Non è che questo mi faccia onore, non me ne frega niente: lo dico solo per amore della verità”.

Nel 1971 gira Un posto ideale per uccidere con una giovane Ornella Muti

    “È un film sbagliato, che ripudio in pieno. Lo scrissi insieme alla povera Lucia Drudi, morta pochi mesi fa. Avevo un contratto con Ponti per fare due film. Era una grandissima occasione. A quell’epoca Ponti tornava dal Dottor Zivago e non firmava un contratto a nessuno, ero stato io il primo. Non mi seppi giocare bene questa chance. La gioventù mi portava ad essere impaziente, mentre lui aveva dei tempi molto lunghi e tra l’altro non stava neanche troppo bene allora. Per cui mi fece lavorare sei mesi ad una sceneggiatura per un film che si doveva girare nelle Filippine e che poi non si fece, una storia di una famiglia, qualcosa tipo La caduta degli dei però sotto forma di thriller. Ero legato a lui per un anno. Potevo stare un anno intero a non fare niente, tanto prendevo lo stipendio; ma allora mi sembrava un delitto. Per cui improvvisammo questo film… ma io avrei voluto qualcosa alla Easy Rider, una storia di giovani on the road. Ma sia Ponti che i produttori volevano il solito giallo, addirittura volevano Carrol Baker… poi lo doveva fare Anna Moffo. Alla fine scelsero un’attrice che non lo poteva assolutamente fare perché, pur essendo molto brava, non era altro che una contadina greca. E quindi non poteva interpretare il ruolo dell’americana bella e seducente… un film sbagliato nel plot, nelle intenzioni, negli attori. Invece i ragazzi funzionarono, sia Lovelock che la Muti, un vero animale cinematografico. Ma Irene Papas era il centro del film e non poteva fallire. Sarebbe stato come se in Orgasmo non avesse funzionato la Baker. Peccato perché l’idea era buona, solo che i produttori fecero sostituire la droga con la pornografia. Ponti ci teneva molto che i suoi film non mostrassero scene troppo crude o situazioni sconvenienti come due ragazzini che si drogano. Era lontanissimo dal Sessantotto, dalla cultura del “fate l’amore non la guerra”, della swinging London. Il film fu un disastro e lì mi giocai la carriera con Ponti”.

Sette orchidee macchiate di rosso è un buon giallo?

    “Si ma se dovessi rifarlo, lo rifarei diversamente. Anche in questo caso i produttori pretesero di dire la loro su tutto il film, fin nelle più piccole scene. Certi critici o addetti ai lavori hanno parlato di questo film come di un film argentiano. Tutt’altro, perché Argento disprezza profondamente la logica, i suoi film non hanno né capo né coda, ma sono soltanto una serie di visioni, di sensazioni personali, di sogni che a volte funzionano… non sempre, ma a volte sì. Invece lì era spiegato tutto, secondo una tradizione italiana richiesta dai produttori di una volta. Comunque il film era fatto molto bene, c’erano delle belle scene, penso a quella stupenda con Rossella Falk che è stata un minuto a occhi sbarrati sotto un metro d’acqua: non so come abbia fatto. È bella la scena della casa disabitata, dell’uccisione della Malfatti. È un film buono che poteva essere migliore”.

Poi c’è stato Spasmo

    “C’è stato chi, come Alda Teodorani, ne parla come di un capolavoro. Mi sembra che anche Bruschini e Tentori siano della stessa opinione. Io non riesco a giudicarlo… non è che lo ami molto. Poi aveva quel manifesto assurdo che sembrava la pubblicità di una pillola contro il mal di testa. Un’altra delle stupidaggini del distributore. Infatti non ci ho più lavorato…”

In Gatti rossi in un labirinto di vetro lei tratteggia una figura di psicopatico all’apparenza normale, che però…

    “Ecco… come tipo di giustificazione alla base del film, quello era più valido perché c’era una ragazzina che aveva subito un trauma infantile. Il film è buono anche se un po’ povero, girato a Barcellona con una produzione che aveva pochissimi mezzi e molte difficoltà: non avevo quello che mi serviva. Avrebbe potuto essere migliore quel film, perché l’ambientazione tutto sommato funzionava”.

Roma, 30 marzo 1996, fine prima parte

GIAN LUCA CASTOLDI

Redazione, ASCinema – Archivio Siciliano del Cinema

https://www.as-cinema.com/umberto-lenzi-intervista-parte-seconda/

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