MAFIA, METAFORE, GIALLI E IMPOSTURE STORICHE NEI FILM TRATTI DALLE OPERE DI LEONARDO SCIASCIA
Il 20 novembre del 1989 moriva a Palermo il grande scrittore di Racalmuto, i cui romanzi e racconti hanno fornito al cinema italiano copiosa e intrigante materia letteraria di trasposizione sul grande schermo
Insieme alla contestazione, ai moti di piazza e ai tentativi di colpi di Stato, deflagra altrettanto fragorosamente e si dispiega abbondantemente dalla fine degli anni ’60 e nei primi anni ’70 il lucroso filone erotico-soft, popolare e scollacciato “rash” nostrano, classificato come cinema “a luci rosa” e del quale una Sicilia chiassosa, pettegola, arruffona e ruffiana (almeno così rappresentata) diventa uno dei grotteschi palcoscenici, confermandosi – insieme a quello “mafiologico” – come una delle principali fonti d’ispirazione “artistica” della produzione nazionale. Il binomio sesso-mafia, nel quale l’isola viene crocifissa e da cui sembra impossibile sfuggire, continua a dominare l’universo della sicilianità in celluloide e l’industria dello spettacolo si lancia a capofitto nell’impresa ricavandone cespiti cospicui, a scorno dell’immagine dell’isola già gravemente compromessa che – tra lupare, glutei sculettanti, tette al vento, Giovannone coscelunghe, vedove inconsolabili disonorate con onore (ora rivalutate dai nuovi adepti del trash) – tocca il punto più basso della sua storia cinematografica. La chiave generalmente grottesca della commedia – solo apparentemente svagata ed innocua, in realtà, spesso, cattivissima – non basta ad attutire il devastante impatto con il pubblico e la percezione del siciliano sessocentrico o mafioso, spesso usurpando il blasone per il tramite della narrativa della quale pomposamente si effigiano con l’ipocrita locuzione del “liberamente tratto”, si radica nella nazione e nel mondo intero quasi a dimostrazione di un teorema.
Polo negativo dello scanzonato filone sessuale, quello mafiologico raggiunge tra gli anni sessanta-settanta il culmine dell’escalation cinematografica. Tuttavia nonostante vistose ambiguità, flussi e riflussi, il tardivo riconoscimento di Cosa nostra come fenomeno internazionale (già dalla fine dell’800 i contatti con gli Stati Uniti, tra mafiosi locali e “succursali” del crimine d’oltre oceano, diventano una prassi) comincia finalmente a baluginare, contribuendo a formare una coscienza del fenomeno fino ad allora impensabile. Il cinema – appena sfiorato dall’organizzazione criminale delle coppole storte compressa in una rappresentazione localistica, “paesana”, limitata perlopiù alla sola Sicilia – avvia, proprio negli anni del boom, un processo di revisione che spiana la strada all’idea di una mafia vista finalmente come intreccio d’interessi nazionali e multinazionali, fortemente legata ai tragici riferimenti dell’attualità e camaleonticamente in rapida trasformazione. Un capovolgimento di prospettiva dovuto principalmente agli scrittori isolani e segnatamente a Leonardo Sciascia (Racalmuto, Agrigento 1921-Palermo 1989) 1. Sciascia scrive di mafia e in fondo scrivendo di mafia, di quella mafia che “tracima” verso nord spostando più in alto la “linea della palma afro-siciliana”, egli non fa che superare, in modo abbastanza singolare – pur restando profondamente ancorato alla realtà siciliana – quel “mondo cupo, aggrondato…chiuso tutto in sé, non relazionato al mondo della storia” che resta uno dei tratti tipici di una buona parte degli scrittori isolani2. In questo nuovo clima di ricerca di connivenze e connessioni, di tentativo d’inserimento della “Sicilia nel moto di cultura che attraversa l’Europa e il mondo”3, nasce l’inquietante parabola di A ciascuno il suo (1967) regia di Elio Petri (interpreti: Gian Maria Volontè, Irene Papas e Gabriele Ferzetti) tratto da un romanzo dello scrittore di Racalmuto, al centro del quale si muove la figura anomala (perché “indigena”, poiché in genere i “liberatori” provengono dal nord) di un ingenuo intellettuale costretto a soccombere quando inevitabilmente andrà a cozzare suo malgrado, con il potere mafioso.
<< Un felice incontro fra letteratura e cinema, fra Leonardo Sciascia ed Elio Petri: due temperamenti in apparenza dissimili, ma legati da un comune amore per la concretezza di un impegno civile. Il siciliano Sciascia si è proposto di trasferire in letteratura i grandi temi della società isolana in via di trasformazione e di chiarirne gli aspetti tenebrosi, quelli che sui quotidiani prendono il nome di delitti di mafia, nelle loro componenti storiche, economiche, psicologiche. Tra i libri dello scrittore di Racalmuto “A ciascuno il suo” occupa un posto a parte: è un finissimo paradosso, intessuto sui temi di un riconoscibile caso giudiziario, che intende dimostrare l’impossibilità dell’innocenza in un mondo fondato sull’intrigo e sull’eliminazione di chi non capisce o non ci sta. Petri ha portato la vicenda sullo schermo preoccupandosi di farne una storia italiana, cioè sottraendola ad ogni suggestione di colore locale…>>4.
Ambigui legami politici e legge ancora umiliata e offesa sono al centro dell’incalzante Il giorno della civetta (1968) regia di Damiano Damiani (interpreti: Franco Nero, Claudia Cardinale, Lee J. Cobb, Tano Cimarosa), in cui alla fine don Mariano – il locale boss biancovestito – ritrova rapidamente la libertà per mancanza di prove, mentre il bel capitano dei carabinieri Bellodi (ispirato alla figura del generale Dalla Chiesa) viene rapidamente traslocato in altra sede. Entrambe impastate di retorica, di descrizioni romanzate e folcloristiche, le due opere si sforzano nondimeno di descrivere per così dire un salto di qualità: un’organizzazione mafiosa che partendo dalla Sicilia è già dilagata in un contesto geopolitico nazionale ed internazionale, con ciò confermando una presa di coscienza e un radicale giro di boa del cinema di denuncia civile. Il punto di contatto tra Sicilia e Italia attraverso Bellodi è traumatico. Quanto alla “vittoria” dello Stato siamo (e, ahimé, giustamente) ancora a distanze stellari. I “don Mariano” allignano ormai dappertutto, sebbene si perda nell’anonimato dei protagonisti e nel gusto di una narrazione “gialla” – avvincente ma lontanissima dall’intelaiatura critica – quel senso di denuncia necessario alla comprensione critica, come invece avviene per esempio ne Il sasso in bocca (1970) di Giuseppe Ferrara, coraggioso docu-film, che “evita i trabocchetti dello spettacolo e dell’affabulazione riportando il discorso sulla concretezza della documentazione…”5. E siamo ancora, nonostante l’innegabile salto di qualità, saldamente ancorati dentro i territori di quella visione, dura a morire anche tra gli intellettuali, d’una mafia romantica, arcaica, tutta infiorettata di codici d’onore, di “voscenza binirica” e di «baciamo le mani», d’ammirazione mista a paura, che restano i veri capisaldi del potere mafioso:
<< Nel biennio 1967-68 Damiano Damiani ed Elio Petri portano sullo schermo rispettivamente Il giorno della civetta e A ciascuno il suo. Mentre il primo fu considerato una ricostruzione abbastanza ordinaria, il secondo venne giudicato unanimamente un felice incontro tra cinema e letteratura con una resa artistica rilevante. Bisogna però dire che sul piano dell’analisi del fenomeno, ci sono limiti rilevanti. La mafia è tutta giocata sul piano psicologico, come struttura mentale, una forma di degenerazione della voluttà del potere. Della mafia si da una spiegazione che, a ben vedere, è anche una giustificazione. Siamo ancora alla critica di costume, non ancora pervenuti alla critica sociale. Prendiamo per esempio il colloquio di don Mariano Arena con il capitano Bellodi. Uno scambio di cortesie e reciproci riconoscimenti, un colloquio tra due “uomini” e da “uomo a uomo”. Dopo aver classificato con puntiglio mafioso e rigore antropologico l’umanità in cinque categorie (“uomini”, “mezzi uomini”, “ominicchi”, “piglianculo” e “quaquaraquà”) don Mariano riconosce in Bellodi un “uomo”. “Anche lei” dice di rimando il capitano emozionato. Il giudizio di don Mariano è freddo, oggettivo; quello di Bellodi ammirato, emozionato. Comunque si tratta di due “uomini” (di quelli che se ne trovano “pochissimi” in giro). Qui lo Stato e l’istituzione, la mafia e l’organizzazione criminale sono completamente assenti, sono andati chissà dove. Speranza che le cose possano cambiare. Neanche per sogno. Intorno a questi due “uomini”, non ci sono altri uomini che lottano per il male o per il bene, non una drammatica pagina di storia, ma una marea montante di “quaquaraquà” che certo non fanno storia. Mettiamo a confronto questo colloquio con l’altro tra massaro Turi Passalacqua e il pretore Guido Schiavi di In nome della legge. Ecco, nell’un caso e nell’altro si tratta di “uomini”, mentre i due rappresentanti della legge suscitano pietà e tenerezza, i due mafiosi destano ammirazione>>6.
Il paradosso sciasciano sta tutto qui, in questa “…osmosi di motivi illuministici e razionalistici e di motivi romantici…In realtà, attraverso Bellodi, è Sciascia che cerca una comprensione umana anche per il mafioso mandante di crimini, e si direbbe…che l’amore per la Sicilia porti Sciascia ad amare anche gli aspetti più cruenti e negativi”7. In quegli anni anche la magistratura comincia a comprendere la reale natura e pericolosità del fenomeno mafioso. Basti pensare al terribile omicidio del giudice istruttore Cesare Terranova, barbaramente trucidato a Palermo nel 1979 insieme al maresciallo Lenin Mancuso, che aveva condotto l’inchiesta sulla guerra di mafia palermitana (1962-63) e contro la cosca di Corleone sui fatti di sangue avvenuti tra il 1958 e il 1963. Un altro processo è però in atto: il realismo, considerato fino ad allora il metro di misura più idoneo a mostrare la realtà, perde il suo primato e comincia a lasciare il posto all’allegoria, ai simboli. A prevalere sarà ora l’affabulazione fantapolitica della realtà e la sua metaforizzazione. I film “politici” diventano metafore dell’esistente ed il luogo fisico dell’azione in molti casi si riduce ad un mero pretesto scenico, ad un semplice dosaggio tecnico di elementi formali. A cosa serve sapere che l’impressionante catena di morti ammazzati nell’apocalittico Todo modo – sempre dal romanzo omonimo di Sciascia – diretto Elio Petri nel 1976, fantascientifica ipotesi di distruzione della classe dirigente rappresentata dai notabili dell’allora creduta eterna Democrazia Cristiana, prende idealmente le mosse dal paese pedemontano di Zafferana Etnea, nel romanzo divenuta «Zafer»? Qui siamo ormai giunti al culmine della catastrofe: lo Stato, che in principio con i suoi rappresentanti ha tentato di introdurre la normalità in Sicilia, degenera e si sgretola imputridito nella corruzione e nella spartizione del potere. Il gesuita don Gaetano prete giustizialista (veemente, tagliente e indignata interpretazione di Marcello Mastroianni) ammazza ad uno ad uno i notabili del partito di maggioranza relativa, massimo responsabile del degrado morale del paese e alla fine si suicida. Grande performance mimetica di Gian Maria Volontè nei panni non dichiarati ma palesi di Aldo Moro, il “presidente” che si fa uccidere dal suo segretario.
Catturato dalla suggestione metaforica anche Francesco Rosi, di formazione realista, nel non meno impressionante ed apocalittico Cadaveri eccellenti (1976, dal romanzo “Il contesto”) traccia un “labirintico apologo politico sulla strategia della tensione”, dove l’anemico messaggio sulla riformabilità del potere scopre proprio all’interno dello Stato le macchinazioni più aberranti: l’ispettore Rogas (Lino Ventura) incaricato delle indagini su una catena di morti mette a nudo un complotto, ma viene ucciso insieme al segretario del Partito Comunista e spacciato per suicida. “La verità non è sempre rivoluzionaria”, con queste parole l’esponente di un immaginario Partito comunista suggellerà la chiusa del film. Grande il cast: Paolo Bonacelli, Tino Carraro, Paolo Graziosi, Anna Proclemer, Renato Salvatori, Charles Vanel, solo per citare i più noti. Il regista Florestano Vancini compare nelle vesti di un dirigente del Partito Comunista. Al loro apparire entrambi i film suscitarono aspre polemiche, ma ad evitare guai vengono ancora tenuti ben lontani dal piccolo schermo sia pubblico che privato. Catone il censore non è affatto morto, vive anzi nelle forme subdole del falso permissivismo, quello innocuo del frastornante intrattenimento televisivo delle gare canore, dei balli, del chiacchiericcio, delle false liti, della massificazione e del controllo delle emozioni.
Una sfiduciata impotenza, un senso di rabbiosa rassegnazione (nonostante la conclamata ribellione dei protagonisti) aleggia su questi film e guida il catastrofismo degli epigoni dell’intrepido pretore di In nome della legge. Nella putrida pozza della Sicilia, centrale operativa della mafia o dell’intera nazione, a soccombere sarà la “normalità”: dall’onesto e ingenuo intellettuale indigeno di A ciascuno il suo al capitano Bellodi del Giorno della civetta, dalla maestrina settentrionale tutto pepe di Gente di rispetto al commissario Rogas di Cadaveri eccellenti, tutti saranno sconfitti. Del resto, sembra dire Sciascia, da “Le parrocchie di Regalpetra” (saggio-racconto scritto nel 1956) ad oggi non è cambiato molto. La morale è sempre quella: “…storia di una continua sconfitta della ragione e di coloro che nella sconfitta furono personalmente travolti e annientati”. E, si badi bene, il riferimento non è solo solo ai coraggiosi paladini che lottano contro la mafia e la corruzione per il trionfo della giustizia. L’annientamento può colpire chiunque non stia ai giochi sporchi del potere, ovunque egli si trovi e qualsiasi ruolo ricopra, fino al punto da far smarrire la fede “…nella ragione umana, nella libertà e nella giustizia che dalla ragione scaturiscono”. Ma davvero le cose continueranno ad andare così o forse è possibile intravvedere nel la buia voragine un barlume di salvezza?
Ad un racconto di Sciascia il cinema presta nuovamente attenzione per ricavarne l’atipico ed amaro giallo-rosa, narrato secondo i moduli dominanti della commedia, Un caso di coscienza (1970) regia del catanese Gianni Grimaldi (Catania 1917-Roma 2001), giornalista, scrittore, autore di commedie musicali di largo successo. In un immaginario paese della Sicilia (il film è girato a Zafferana Etnea, ormai divenuto luogo fetish dei film “sciasciani”) si scatena il putiferio quando un settimanale femminile pubblica la lettera di una donna che confessa d’aver tradito il marito. Gli uomini riuniti in “cartello” iniziano una forsennata ricerca dell’adultera alla fine della quale nessuno si salverà dall’ignominia pubblica o privata.
<<Produzione e regia…hanno puntato sullo spettacolo, ma nonostante i loro sforzi di fare della pellicola un divertimento piccante e basta, la materia fornita da Sciascia ha lasciato nella loro fatica una traccia fumigante che fa pensare anche senza averne voglia…La materia trattata s’impone con una carica “morale” inaspettata…>>8.
Come dire: i limiti del film (e della regia) sono evidenti ma la materia letteraria, nonostante tutto, li travalica. Potenza della scrittura! Molti i siciliani chiamati da Grimaldi a sostenere il ruolo di potenziali portatori di puntute escrescenze: Lando Buzzanca, Turi Ferro, Michele Abruzzo, Carletto Sposito, Aldo Puglisi, Ida Carrara (moglie di Ferro nella vita). In anni più recenti ancora un romanzo di Sciascia è il forte tramite di Porte aperte (1990), rivelatosi il primo grande successo di pubblico del calabrese Gianni Amelio (qui anche sceneggiatore insieme a Vincenzo Cerami), che conquista anche una nomination, tenebrosa storia ispirata ad un fatto realmente accaduto nella Sicilia del 1937. Un uomo che ammazza il proprio datore di lavoro, un collega di lavoro e la moglie, reclama per se la pena di morte e viene condannato con sentenza d’appello, strenuamente e vanamente difeso da un “piccolo giudice”, per principio schierato contro la pena capitale, che indagando sul triplice omicidio riesce a far emergere un mondo corrotto e insospettate complicità. Uno dei film più intensi e sofferti tratti dalla narrativa dello scrittore di Racalamuto, da qualcuno considerato “il miglior dramma giudiziario italiano” anche per le straordinarie e misuratissime interpretazioni di Gian Maria Volontè (il giudice), Ennio Fantastichini (l’assassino) e Renato Carpentieri (un giurato), anch’egli contrario alla pena capitale, che fa pervenire al giudice una copia di “Delitto e castigo” di Dostoewski come atto di fede e di speranza in un futuro meno buio. Acute le pennellate dell’ambiente familiare e di lavoro, accompagnate da un buon uso del dialetto siciliano generalmente ridicolmente “italianizzato” con espressioni inesistenti nella comune parlata vernacolare. Tra gli attori siciliani: Tuccio Musumeci e Vitalba Andrea. Penultima, fino ad oggi, apparizione cinematografica sciasciana, Una storia semplice (1991) di Emidio Greco “giallo di ambizioni metafisiche che allude e allegorizza” (un caso di falso suicidio fa scoprire un commissario disonesto implicato in attività criminali) si risolve in un tentativo andato a vuoto di conquistare un pubblico più vasto. Critica, come sempre sui film di Greco, discordante. Volonté e Fantastichini si ritrovano insieme, uno nei panni d’uno scettico intellettuale che aveva già capito tutto e l’altro in quelli del commissario corrotto. Nel cast: Massimo Dapporto, Massimo Ghini, Omero Antonutti, Giammarco Tognazzi, Paolo Graziosi, Tony Sperandeo.
Nel 2001 il pugliese Emidio Greco si rivolge ad un’opera di Sciascia per proporre Il Consiglio d’Egitto, sublime impostura dell’umile abate Vella che, fingendosi arabista, nel 1782 riesce a far credere al parassitario e usurpatore ceto aristocratico siciliano d’aver tra le mani un vecchio codice arabo, appunto “Il Consiglio d’Egitto” (in realtà uno scritto su Maometto), che rimette in discussione i privilegi acquisiti, proprio mentre il vicerè Caracciolo tenta di limitarne il potere attraverso un’opera di riforme bruscamente interrotta dalla sua defenestrazione. Sullo sfondo la lotta per conquistare le libertà repubblicane di cui resta vittima il democratico avvocato Di Blasi, giustiziato nella pubblica piazza come traditore della sua classe sociale, mentre l’abate alla fine smascherato viene graziato solo per non gettar discredito su coloro che gli hanno così ingenuamente creduto. Ottimamente interpretato da Silvio Orlando nei panni del protagonista, l’elegante e curato film di Greco – metafora della “storia come menzogna” del potere che impunemente reprime – risulta però eccessivamente verboso, intellettualistico e troppo aristocratico per conquistare un largo gradimento. Altri interpreti: Tommaso Ragno, Renato Carpentieri, Antonio Catania, Marine Del Terme, Yann Collette, Renato De Carmine, Leopoldo Trieste.
* Con questo breve saggio leggermente modificato, tratto dal suo libro “Lo schermo trema. Letteratura siciliana e cinema” (Città del Sole Edizioni, Reggio Calabria, 2010), inizia la collaborazione con ASCinema – Archivio Siciliano del Cinema Franco La Magna, catanese, critico cinematografico, storico del cinema, giornalista e operatore culturale, già responsabile delle pagine culturali del quotidiano “Giornale del Sud” diretto da Giuseppe Fava (1980-81). Collaboratore di giornali, riviste specializzate e on-line, La Magna è autore di numerosi saggi sul cinema pubblicati con varie case editrici. Ha partecipato alla stesura della seconda edizione dell’ “Enciclopedia di Catania” (Tringale Editore, Catania, 1987). Promotore di Film Commission, socio del Sindacato Nazionale Critici Cinematografici Italiani (SNCCI), ha curato i cataloghi della manifestazione “CineNostrum” di Aci Catena (Catania), dedicata nei vari anni a Ennio Morricone, Ettore Scola, Carlo Verdone e Nicola Piovani. Dirige le collane “Cinema di Carta” per Algra Editore (Viagrande, Catania) e “Lo Specchio Scuro/Cinema Controluce” per la casa editrice “Città del Sole” (Reggio Calabria). Ha sviluppato progetti e tenuto incontri sul linguaggio cinematografico presso istituti superiori siciliani. Membro di giurie e del comitato organizzatore di Festival cinematografici è stato Direttore artistico delle giornate del “Cinema Invisibile” di San Giovanni La Punta (Catania).
1Da Sciascia sono stati tratti anche quattro film televisivi e un “docudrama” esclusi dalla presente trattazione che limita l’indagine alle sole opere cinematografiche, eventualmente riservandosi in seguito una dissertazione a parte.
2 Cfr. Sebastiano Addamo, Vittorini…, cit., p.78
3 Ivi, p. 83; l’autore cita in particolare <<Le parrocchie di Regalpetra>>, i tre racconti-saggio de <<Gli zii di Sicilia>> e <<Il giorno della civetta>>.
4 T.ullio Kezich, Il Millefilm 1967-1977, Il Formichiere, Milano, 1978.
5 Gianni Rondolino (a cura di), Catalogo Bolaffi del cinema italiano. 1966-1975, Giulio Bolaffi Editore, Torino, p.110.
6 Giovanni Cucinotta, Dove, quando, perché Mafia, Pellegrini Editore, Cosenza, 1988, p. 151.
7 Sebastiano Addamo, op. cit., p. 143.
8 Ermanno Comuzio, “Cineforum”, n. 92/93, agosto 1970.
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